Acqua pubblica in brocca!

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Le bottiglie d’acqua hanno colonizzato i luoghi della nostra quotidianità: ne sono piene le biblioteche, le aule universitarie, gli uffici pubblici, le palestre. I distributori automatici, che troviamo in qualunque luogo pubblico, vengono riforniti almeno due volte al giorno e nei supermercati le confezioni vanno a ruba. Ognuno può scegliere quella che più lo soddisfa: quella povera di sodio, quella della salute, quella che aiuta la diuresi e così via. Ci hanno convinti che l’acqua di cui abbiamo bisogno è quella che viene venduta in bottiglia perché di qualità migliore rispetto a quella che giunge direttamente nelle nostre case. Ma è veramente così?

Di sicuro gli studenti dell’Università di Canberra hanno la fortuna di non dover assistere a questo scempio consumistico, dato che nel loro campus è stata messa al bando la vendita di acqua in bottiglia, sostituita da distributori automatici che riempiono contenitori acquistabili separatamente (sistema organizzato dal gruppo DO SOMETHING).

Prima di descrivere cosa c’è dietro il consumo dell’acqua in bottiglia apriamo una sintetica parentesi sulla situazione dell’acqua considerata generalmente pubblica, che non attraversa un bel periodo. Già nel non molto lontano 1994 la legge “Galli”, che prende il nome dal proponente Democristiano, viene approvata ed apre la strada alla privatizzazione delle risorse idriche. Nel corso degli anni, grazie al complice silenzio dei mezzi d’informazione nel 1999 si giunge alla privatizzazione  del primo acquedotto italiano, cioè quello romano, con la supervisione di Francesco Rutelli, Linda Lanzillotta e Chicco Testa (lo stesso che in questi giorni vuole convincerci dei fattori positivi dell’energia nucleare). Il decreto “Ronchi” del 2009 completa l’opera di privatizzazione, facendo in modo che banche d’affari e imprese multinazionali possano prendere il controllo delle risorse idriche. Si prevede l’affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica a favore di imprenditori, o a società a partecipazione mista con capitale privato non inferiore al 40% del pacchetto azionario. Inoltre è prevista la cessazione degli affidamenti “in house” a società totalmente pubbliche alla data del 31 dicembre 2011. L’attuazione di questo processo viene giustificata da miglioramenti qualitativi non ottenibili senza una liberalizzazione.  Innanzitutto bisogna ricordare che la riforma porta ad una vera e propria privatizzazione, in quanto nei servizi di rete, come quello idrico, si parla di concorrenza “per il mercato” e non di concorrenza “nel mercato”: una volta affidato il servizio tramite  gara, chi l’ha vinta è il despota che avrà il controllo per venti o trenta anni. Sarà a tutti gli effetti un sovrano assoluto in quanto non vi è una “costituzione” o un garante indipendente che possa orientarne il controllo [Luca Martinelli, “L’acqua è una merce”]. Inoltre le privatizzazioni già realizzate non hanno dato risultati positivi, basti vedere le esperienze di Palermo, di Aprilia o di alcune città europee come ad esempio Parigi (nella quale hanno sede le multinazionali dell’acqua Suez e Veolia) dove si è deciso di ritornare alla gestione municipalizzata che farà risparmiare al Comune circa 30 milioni di euro l’anno.

Il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua si batte da anni a tutela di questo bene prezioso e ha prodotto una legge di iniziativa popolare (che giace in Parlamento dal 2006), sottoscritta da 400mila cittadini,  per poter sottrarre l’acqua dal mercato e realizzare una gestione pubblica e partecipata. Contro la mercificazione dell’acqua il Forum ha promosso tre referendum raccogliendo oltre 1,4 milioni di firme in tutta Italia. La Corte Costituzionale ha ammesso soltanto due dei tre quesiti referendari proposti:

1) Si propone l’abrogazione dell’art. 23 bis (dodici commi) della Legge n. 133/2008 , relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica. È l’ultima normativa approvata dal Governo Berlusconi. Stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso gara e detenga almeno il 40%. Con questa norma, si vogliono mettere definitivamente sul mercato le gestioni dei 64 ATO (su 92) che o non hanno ancora proceduto ad affidamento, o hanno affidato la gestione del servizio idrico a società a totale capitale pubblico. Queste ultime infatti cesseranno improrogabilmente entro il dicembre 2011, o potranno continuare alla sola condizione di trasformarsi in società miste, con capitale privato al 40%. La norma inoltre disciplina le società miste collocate in Borsa, le quali, per poter mantenere l’affidamento del servizio, dovranno diminuire la quota di capitale pubblico al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro il dicembre 2015. Abrogare questa norma significa contrastare l’accelerazione sulle privatizzazioni imposta dal Governo e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici in questo Paese.

2) Si propone l’abrogazione dell’’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’ “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”.Poche parole, ma di grande rilevanza simbolica e di immediata concretezza. Perché  la parte di normativa che si chiede di abrogare è quella che consente al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio. Abrogando questa parte dell’articolo sulla norma tariffaria, si elimina il “cavallo di Troia” che ha aperto la strada ai privati nella gestione dei servizi idrici: si impedisce di fare profitti sull’acqua. (www.referendumacqua.it)

Il 12 giugno 2011 è indispensabile recarsi alle urne e votare “Sì” per l’acqua bene comune!

Vincere il referendum però a noi non basta; rappresenta solamente una battaglia, parte di una  lunga guerra che deve essere combattuta con una strategia globale, proprio come globalmente agisce il nemico. Deve essere il primo passo verso una vera e propria riappropriazione dei beni comuni che sono oggetto di un saccheggio, di cui molti di noi sono complici. Il processo di mercificazione coinvolge sempre più tutti gli aspetti della nostra vita, dalla nascita alla morte, concedendo agli individui l’illusione di essere liberi e poter scegliere ciò di cui hanno bisogno. Ma rimane un’illusione in quanto i bisogni sono il frutto di un “immaginario colonizzato”: la manipolazione mediatica spinge le persone a comprare prodotti nuovi e,  spesso, inutili. La scelta nella maggior parte dei casi non è più libera, ma è indotta da messaggi pubblicitari che portano alla creazione di nuovi bisogni.  È proprio qui che il nostro discorso sull’acqua pubblica tocca   quello dell’acqua in bottiglia. Molte delle persone a cui abbiamo domandato se fossero favorevoli alla privatizzazione dell’acqua ci hanno dato risposta negativa. Senza ombra di dubbio, dato che gli italiani sono i maggiori consumatori europei (e terzi al mondo) di acqua in bottiglia, possiamo affermare che tra i contrari alla privatizzazione dell’acqua ci sono numerosi consumatori di acqua in bottiglia. In altre parole,  questa incoerenza di fondo ci mostra come da un lato ci si mobiliti per l’acqua pubblica, mentre dall’altro si beva quella privata. Tra i nostri obiettivi, per la difesa dei beni comuni e la sopravvivenza dell’ambiente, deve esserci anche il cambiamento degli stili di vita fondati sulla crescita illimitata.

In Italia l’acqua in bottiglia è quasi totalmente controllata dalle multinazionali. I gruppi Sanpellegrino-Nestlè, San Benedetto, Rocchetta-Uliveto, Ferrarelle, Fonti di Vinadio, Norda, Spumador e Gaudianello controllano il 71% delle vendite. Gli italiani spendono circa 3,2 miliardi di euro per comprare acqua minerale, cifre non giustificate data la buona qualità dell’acqua che arriva nelle nostre case.  Il meccanismo che permette a questo mercato di essere così imponente, e impedisce una corretta informazione sullo stato dell’acqua e normative relative, è la pubblicità.  L’incremento delle vendite dal 1980 ad oggi è stato del 313%; allo stesso tempo si è avuto un miglioramento di efficienza e qualità delle reti idriche che portano l’acqua nelle nostre case le quali, tranne in rari casi, non vengono pubblicizzate. Tutti invece hanno sentito parlare dell’acqua povera di sodio, quella che stimola la diuresi o quella che rende belli fuori. Dal 1991 gli investimenti delle aziende sui mezzi di informazione sono quadruplicati: nel 2005 ammontavano a circa milioni di euro. Talvolta la pubblicità può anche essere ingannevole e mettere esplicitamente in discussione l’acqua del rubinetto, come ha fatto Mineracqua (federazione italiana delle industrie delle acqua minerali naturali). La sua campagna pubblicitaria, per fortuna, è stata bloccata dal Giurì di autodisciplina pubblicitaria nel Novembre del 2010.

Come possono permettersi le aziende di investire così tanto nelle pubblicità ed essere presenti su tutti i quotidiani e sulle televisioni? La prima cosa che ci viene in mente è dare un’occhiata ai costi che devono essere sostenuti, come ad esempio i canoni di concessione per le acque minerali. Infatti l’acqua che viene imbottigliata comporta dei costi irrisori per le aziende. Esiste cioè un vuoto normativo del tutto oscuro ai cittadini che vedono sottrarsi grandi quantità di acqua senza che le aziende paghino un adeguato corrispettivo (da poter utilizzare ad esempio per migliorare l’efficienza delle reti idriche). Una decina di Regioni prevedono il pagamento di un canone in base alla quantità di acqua imbottigliata, che varia dai 0,3 euro per metro cubo della Campania, ai 2 euro nel Lazio. In altre regioni invece, come nel Molise dove sono quasi nulli, gli imbottigliatori pagano solo un canone annuo in base alla superficie del permesso di ricerca della sorgente e del successivo sfruttamento; il canone (che dovrebbe ammontare a 10€/ha) è ancora regolato dal Regio decreto n. 1443 del 1927 “Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno”, quando le acque in bottiglia erano utilizzate come acque curative o considerate come bene di élite e non avevano certo la diffusione e i consumi attuali. [Dossier Legambiente 2008] Al cittadino mancano queste come tante altre informazioni.

Prendendo in mano una bottiglietta d’acqua si può notare che l’etichetta riporta diversi valori. Il giornalista Luca Martinelli, nella “Piccola guida al consumo critico dell’acqua”, ci fa notare che nel corso degli anni sono letteralmente spariti dalle etichette diversi parametri che le aziende oggi omettono di indicare, come il residuo fisso o i nitrati; oppure non ci è possibile conoscere la quantità di arsenico o piombo contenuta nella bottiglia d’acqua. In base alla Direttiva 40/2003 della Commissione Europea, che determina i limiti di concentrazione per alcuni componenti indesiderati (come arsenico, cromo, rame), nel dicembre del 2004 il Ministro della Salute Sirchia ha dovuto sospendere temporaneamente l’autorizzazione alla vendita per 126 acque minerali (11 di queste presentavano valori di arsenico o manganese). Su 290 aziende imbottigliatrici soltanto 164 avevano inviato, entro l’ottobre dello stesso anno, il certificato di analisi che attestasse la conformità.

Altro aspetto da prendere in considerazione è il danno ambientale generato dall’acquisto di acqua in bottiglia. Il Pet è il materiale più diffuso per l’imbottigliamento e provoca inquinamento in fase di produzione, trasporto e smaltimento. Per produrre un kg di Pet, cioè 25 bottiglie da 1,5l, vengono consumati 2kg di petrolio e 17,5l di acqua. Per contenere 37,5 litri d’acqua se ne consumano la metà e si rilasciano circa 2,3 kg di anidride carbonica. In fase di trasporto rileviamo che un camion, in perfetta efficienza, consuma un litro di gasolio ogni 4 km; con una percorrenza  media di 1000 km, il consumo di gasolio ammonta a 250 litri, cioè 25 cm cubi di gasolio per bottiglia. Il consumo giornaliero pro-capite di 1 litro di acqua in bottiglia comporta un consumo di 5 litri di gasolio all’anno (ai quali vanno aggiunti i consumi di petrolio in produzione e la benzina degli acquirenti). Una famiglia di 4 persone spende ogni anno da 320 a 720 euro e fa bruciare almeno 32 litri di combustibili fossili per ottenere qualcosa che già possiede e sgorga dai rubinetti di casa. In fase di smaltimento si rileva che solo 1/3 delle bottiglie di plastica è stato raccolto in maniera differenziata e riciclata [www.eco-progetti.com].

L’acqua del rubinetto è a chilometro zero, evita l’inquinamento atmosferico e si traduce in un rilevante risparmio per le famiglie. Inoltre subisce un duplice controllo, quello del gestore del servizio idrico integrato e quello delle Asl: a seguito del Decreto Legislativo 31 del 2001 le acque devono rispettare una quarantina di parametri chimici e microbiologici.

Ma come fare nei ristoranti? Alcuni ristoratori, davanti alle richieste dei clienti di ordinare acqua in brocca, sostengono  che esista un divieto di servire liquidi non imbottigliati o non sigillati. Ma non esiste alcuna legge che impone ciò, nessun esercizio può rifiutare l’acqua del rubinetto. Il rifiuto di servirla in brocca per ragioni di salubrità delle acque che escono dai rubinetti del ristorante dovrebbe farci chiedere al ristoratore quale acqua utilizza per cucinare, lavare e pulire i cibi (La rivista Altreconomia ha promosso la campagna “Imbrocchiamola” per sensibilizzare bar e ristoranti a servire anche acqua del rubinetto, chiedendo ai lettori di segnalare i locali che davano la possibilità di ottenere acqua in brocca [www.imbrocchiamola.org]).

Pensate ancora che l’acqua in bottiglia sia migliore di quella del rubinetto?

Noi, per ovvi motivi, preferiamo bere “l’acqua del sindaco” dalla brocca e pretendiamo anche che sia pubblica. Siamo convinti che votare “Sì” ai referendum il 12 giugno sia di fondamentale importanza per la difesa del bene più prezioso che abbiamo. In vista della Giornata Mondiale dell’Acqua del 22 marzo invitiamo tutti ad evitare l’acquisto delle inutili e dannose bottiglie, iniziando a bere esclusivamente l’ottima acqua che sgorga dai rubinetti delle nostre case.

fonti:
“L’acqua è una merce”, Luca Martinelli. http://www.altreconomia.it/site/ec_articolo_dettaglio.php?intId=103
“Il far west sui canoni di concessione”, www.legambiente.it

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