Amai trite parole che non uno osava

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Tra i tanti segni che gli intellettuali del cosidetto “Umanesimo” hanno utilizzato per distinguersi dall’epoca precedente, ve ne è uno che forse non tutti conoscono, ma che è sicuramente molto importante per capire il valore che questi uomini davano alla “cultura”, in particolare nella sua espressione scritta. Dal greco  φίλος phìlos “amante, amico” e λόγος lògos “parola, discorso”, la filologia è la disciplina “amante della parola”, che si pone l’obiettivo di studiare i testi antichi e moderni e di proteggerli, ricostruendone la forma originaria e arrivando ad una interpretazione che sia il più possibile corretta. Questo è possibile attraverso una metodologia ben precisa, lunga e scrupolosa, che si avvale dell’analisi comparativa delle fonti, dello studio approfondito dell’autore e del suo contesto, e di una critica sempre ben argomentata e motivata. Il filologo, diceva Nietzsche, deve essere una figura silenziosa e che sa farsi da parte.

La filologia ha un legame molto stretto con l’Italia, se si tiene conto che il principale centro di fioritura di questo metodo di studio fu proprio Firenze, nel XIV secolo. All’inizio di quell’Umanesimo che si differenziava dalla cultura medievale proprio per un rapporto diverso con i testi scritti, un rapporto improntato all’amore per il testo in sé, per il suo significato reale e non per una successiva e forzata interpretazione.

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Ma perché rivangare oggi questo sapere di antica origine, ben conosciuto forse solo entro i confini delle università letterarie? Effettivamente, la filologia poco ha a che vedere con la cultura mediatica attuale. Purtroppo. Quello a cui assistiamo oggi è evidentemente un tipo di comunicazione in cui i valori che fondavano la filologia  sono del tutto assenti. Valori come il rispetto per i testi, il riconoscimento della loro serietà e della loro importanza. Valori che rendono necessario un metodo di studio perché essi siano protetti  e salvaguardati.  L’impressione, guardando le modalità comunicative attuali, che oggi travalicano il testo scritto e sempre più fanno uso dell’immagine come produttrice di significato, è che il valore su cui esse fanno leva è forse una filologia al contrario. Un amore per la parola per il suo carattere interpretabile, doppio, evanescente.

Nei social, in cui ad un post ne succede un altro, in cui posso cancellare e ritrattare quanto pronunciato con un colpo di click, la filologia non ha più senso di esistere: la parola è un mezzo, senza valore di per sé, è usa e getta e strumentale ai nostri scopi. Non importa se un giorno si grida al colpo di stato e all’”impeachment” (o “impeagment”? Altro problema di notevole interesse filologico) per la più alta carica dello stato, e il giorno dopo si ritratta tutto come se nulla fosse successo. Non importa se i parlamentari si fanno promotori di bufale e notizie false per attirare a sé consensi, o per creare malumori verso altre figure. Non importa se i problemi sono creati mediaticamente, senza nessuna ricerca e diffusione delle fonti, ma solo sulla base dell’arbitrio di chi da quei problemi trae vantaggio.

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Tante notizie molto colorite e troppo poco verificate. Su questo uso della parola, oggi, c’è chi ha deciso di basare il proprio successo. Gridare al complotto per ogni cosa avversa significa dire che non è possibile credere a nulla. Neppure ai dati. Neppure a chi ha le competenze per parlare. A questo, punto, questo è il vero messaggio, tanto vale credere a quello che fa comodo credere o a chi fa comodo credere. Sulle conseguenze di questa comunicazione non entro. Ma come cittadino, sinceramente, mi chiedo quanto hanno intenzione di spingersi oltre nel prenderci in giro con i giochi di prestigio della parola. A cui nessuno crede, ma a cui è così comodo credere.

Ho una paura, e una speranza. La paura è che questa modalità comunicativa cambi irrimediabilmente il modo di strutturare il nostro pensiero, e la nostra percezione della realtà. Una percezione superficiale, leggera come il vento, attirata dall’oro come le gazze ladre. Come diceva Vygotski, il linguaggio contribuisce a strutturare il pensiero.

La speranza è che in questo scenario ci sia qualcuno che abbia coraggio e voglia di sfidare questo linguaggio, e non combattere la battaglia con queste stesse armi comunicative, ma che abbia l’intelligenza di trovarne altre, serie, e convincenti, a cui poter dare fiducia. La fiducia quella problematica, che nasce quando le risposte sono complesse, ma frutto di studio, di analisi, di amore.

Chiudo con una poesia di Saba, autore che sa usare parole facili, senza per questo renderle banali. Una dichiarazione di poetica, quella domanda sempre aperta su come le parole vadano utilizzate.

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

U. Saba, Canzoniere.

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Sono nata e vivo a Carpi (Mo). Mi sono laureata nel 2012 in lettere moderne presso l’università di Parma con una tesi su "Gomorra" di Roberto Saviano; attualmente sto completando gli studi in Italianistica all’università di Bologna. Spero di poter lavorare come insegnante presso le scuole superiori.

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