Cercate l’antica madre (recensione di impressioni)

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Vincenzo Tosti e Miriam Corongiu, per chi non li conoscesse, sono attivisti ambientali che si sono distinti per gli sforzi profusi attraverso Rete di Cittadinanza e Comunità, associazione impegnata da anni a scoperchiare tutta la verità sulla tragica e criminale vicenda della Terra dei fuochi. A gennaio è stato pubblicato per Pasquale Gnasso Editore Cercate l’antica madre, libro dove i due raccontano dei viaggi per il paese alla ricerca di loro simili, ossia persone attive a difesa dei territori contro devastazioni ambientali di ogni genere; le varie “Terre dei fuochi d’Italia”, come recita la copertina.

Sono tante le ragioni per cui l’opera risulta apprezzabile, ma vorrei soffermarmi su due in particolare. La prima riguarda il fatto che, benché venga evidenziata la caratura umana di alcune figure simbolo (la ‘donna-canarino’ Albina Alghisi, Don Palmiro Prisutto, Gianni Fabbris e tante altre), gli autori abbiano evitato di scadere nella cronaca personalistica in stile Repubblica, impedendo così al pathos di travalicare sul logos. In tempi di indignazione facile da social network, ottimo veicolo di fake news e altri obbrobri, la denuncia sociale deve infatti prestare la massima attenzione affinché la passione non infici la lucidità necessaria per trattare senza demagogia tematiche spinose e controverse. Pertanto, anch’io preferisco non indugiare qui sulla vicenda personale di uno degli autori, l’amica e redattrice di DFSN Miriam Corongiu – per quanto meritevole di grande attenzione– per concentrarmi sui contenuti.

In secondo luogo, pur trattandosi di un’opera smaccatamente ‘di parte’ – come può non esserlo quando chi l’ha scritta vive insieme ai propri cari sopra una catastrofe ecologica e sanitaria? – essa non si propone affatto di indottrinare, preferendo fornire molti spunti di riflessione e suggestioni critiche. Anche la decisione di chiudere il volume con il celebre articolo di Pier Paolo Pasolini ‘Il vuoto del potere‘ (quello della sparizione delle lucciole, per intenderci), sembra pensata allo scopo di evitare qualsiasi conclusione forzata, lasciando piuttosto che le informazioni e le considerazioni espresse nel testo si interfaccino con dubbi, ipotesi e convincimenti personali, in una costruzione condivisa di significati tra autori e lettore. Vorrei quindi raccontare quella che è stata la mia rielaborazione del testo.

Appena terminata la lettura, il primo pensiero è andato alla Terra dei fuochi, provando la netta sensazione di avere trovato conferma a perplessità che covavo da tempo riguardo alla narrazione mediatica di quel disastro, distorta e strumentalizzata. Intendiamoci: siamo davvero di fronte a una tragedia di proporzioni immani, “il più grande laboratorio di cancerogenesi a cielo aperto”, come lo ha definito l’oncologo di fama internazionale Antonio Giordano. Tuttavia, Cercate l’antica madre ha rafforzato la sensazione che a rendere eccezionale la Terra dei fuochi non sia la sua esistenza in quanto catastrofe ecologica, bensì l’entità spropositata della stessa. Avverto qualcosa di simile ogni anno in occasione del Giorno della Memoria: viviamo in un mondo dove i campi di concentramento (sotto forma di campi profughi, centri di identificazione ed espulsione e simili) e lo sfruttamento intensivo del lavoro sono diventati la norma, ma il ricordo di Auschwitz in qualche modo ci risolleva perché siamo ancora abbastanza lontani dalle camere a gas e da abusi tanto atroci; che questi “non succedano mai più”, in cambio però la nostra civiltà attinge a pieni mani da violenza ‘a bassa intensità’ (per usare il gergo militare), del tutto sdoganata e legittimata.

Ecco, consapevole della delicatezza del paragone, ritengo oggi la la Terra dei Fuochi l’equivalente ecologico di ciò che la shoah ha rappresentato nella pratica dello sterminio. Nel momento in cui il bubbone è esploso, i mass media hanno enfatizzato (a giorni alterni) l’inferno campano, facendo intendere che tanto abominio era un accidente unico nel suo genere da imputarsi al dominio di camorra e malapolitica (a loro volta riconducibili a lassismo, superficialità e clientelismo tipicamente meridionali – ultimo ma non ultimo, ministro Bussetti docet).

La verità, purtroppo, è che in Campania come ad Auschwitz si è ‘soltanto’ calcato troppo la mano. Gli sversamenti di rifiuti tossici nel bresciano, la gestione delle estrazioni petrolifere in Basilicata, il ‘triangolo della morte’ dei petrolchimici in Sicilia e tanti altri casi descritti denunciano invece una situazione in cui oltraggi a natura e salute sono prassi abituale, dove la legislazione in materia di emissioni, anziché prescrivere ferrei limiti di salvaguardia, sembra piuttosto indicare delle soglie di attenzione agli inquinatori per evitare di farla troppo fuori dal vaso. Insomma, forse la vera pietra dello scandalo non è rappresentata dall’abnorme disastro campano, bensì dalla banalità del male delle tante, troppe realtà degradate meno note e che il libro invece ci sbatte prepotentemente sotto al naso.

Cercate l’antica madre ha rafforzato il sospetto che la miopia della classe dirigente, unitamente alla sua disonestà e alle relative connivenze criminali, non siano la causa dei disastri ma la conseguenza di un problema più profondo e strutturale legato al perseguimento di determinati modelli di sviluppo. Detta in parole povere: per raggiungere alcuni obiettivi politici-economici in un contesto a industrializzazione matura, forse è diventato oramai necessario, in misura maggiore o minore, compiere atti insensati, oltre che illeciti e moralmente riprovevoli.

Molti potrebbero chiedermi se per caso mi sono svegliato solo oggi, dal momento che il nostro paese ha già conosciuto il Vajont, Seveso, la vicenda Eternit e tante altri eventi incresciosi. Tuttavia, pur rappresentando le prime incrinature della sbornia da boom postbellico, essi potevano probabilmente essere classificati ancora come incidenti ed emergenze; oggi, osservano Tosti e Corongiu, è palese il contrasto tra il silenzio attorno alle 100 tonnellate di PCB sversate dalla Caffaro di Brescia rispetto al clamore suscitato dalla ventina di chili di diossine di Seveso. Solo risultato degli effetti meno immediati sulla salute del PCB? Forse. All’esatto opposto, però, come spiegare le massicce proteste contro TAV e TAP? Queste infrastrutture, diversamente dallo stoccaggio illegale di rifiuti tossici, non sono crimini, eppure perché vengono vissute come tali dalle popolazioni locali, le stesse che solo qualche decennio fa spesso accoglievano festanti autostrade, sbarramenti idrici e altre opere altamente impattanti? La sinergia contrastante tra passiva accettazione di ciò che dovrebbe essere aborrito e rifiuto della vecchia normalità sembra indicare un punto di rottura importante, un nervo scoperto non da oggi.

Il discorso potrebbe farsi molto complesso, per cui lo limito a una riflessione basata su di un solo indicatore ambientale. Secondo i dati forniti dal sito Web del Global Footprint Network, quella sotto riportata è l’evoluzione nel tempo dell’impronta ecologica dell’Italia rispetto alla propria biocapacità (l’impronta ecologica misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti):

 

L’impronta italiana da trent’anni a questa parte è circa tre volte maggiore della biocapacità disponibile e adesso ammonta a un livello che, se generalizzato a tutta l’umanità, richiederebbe risorse equivalenti per 2,5 pianeti Terra. Crediamo davvero che a una contabilità ecologica tanto apocalittica non debbano corrispondere risvolti altrettanto tangibili e inquietanti? Emblematicamente, l’overshoot italiano mostra un calo in corrispondenza dello scoppio della grande crisi economica del 2007-08, quasi esistesse una relazione tra PIL e pressione sugli ecosistemi (gigantesco segreto di Pulcinella!). In fondo, proprio in queste settimane la bizzarra alleanza tra sindacati e imprenditori non ha ripetuto a più riprese che è importante sviluppare le energie rinnovabili ma che, per il bene dell’economia nazionale, bisogna opporsi al blocco delle trivellazioni di idrocarburi? Le ipotesi di ecotasse sulle vetture inquinanti non hanno anch’esse sbattuto contro il veto di parti sociali e forze politiche? Tutto ciò non equivale implicitamente ad ammettere che inquinare è necessario alla crescita, il ‘vero bene comune’, come l’ha chiamata spesso Confindustria? ‘Inutilità’ e ‘crimini’ non sono forse diventati fenomeni imprescindibili per grattare il fondo del barile?

Nel 1975 Pasolini lamentava la scomparsa delle lucciole, oggi si teme l’estinzione di tutte le specie di insetti nel giro di un secolo. Come abbondantemente spiegato da Herman Daly, siamo entrati a piedi uniti nell’era della crescita anti-economica, dove si esulta o ci si dispera per qualche decimale di PIL in più o in meno benché ciò non ravvisi alcuna correlazione con il benessere reale (anzi, comincia a essere vero l’esatto contrario). Così come l’escalation degli armamenti dopo la seconda guerra mondiale ha profilato l’eventualità di un olocausto atomico capace di far apparire in confronto una bazzecola quello hitleriano, altrettanto le minacce ecologiche si fanno così gravi e concrete in ogni parte del mondo che, in un futuro non troppo lontano, la Terra dei Fuochi e le altre realtà descritte nel libro potrebbero essere derubricate a normale fatto di cronaca. In Cercate l’antica madre riusciamo a scorgere una via di uscita da questo pericoloso vicolo cieco?

Nell’epoca della politica del leaderismo e dei guru dispensatori di verità, gli autori non ci propongono alcuna supponente ‘soluzione’, bensì una condizione necessaria non sufficiente per la transizione, ossia l’attività dei gruppi di cittadinanza attiva. Sia che vengano vissuti in ottica riformista (cioé come modalità per rivivificare la democrazia rappresentativa), sia in quella più radicale e innovatrice (quali strumenti per costruire nuove forme di istituzioni e partecipazione politica), essi incarnano concretamente la figura tratteggiata da Albert Camus dell’uomo in rivolta, che, con il suo atto di dissenso, allo stesso tempo nega e afferma valori, riconoscendo l’esistenza di limiti, non ponendosi in un’ottica avanguardistica e totalitaria ma costruendo significati nel mondo del non-senso, illuso di poter crescere all’infinito. Dalle pagine del libro, il sentimento di comunanza e fraternità che emerge tra i gruppi a difesa dei territori dimostra chiaramente che il motto di riferimento non è “non nel mio giardino” (“not in my backyard”, la famigerata sindrome NYMBY), bensì “non in nostro nome e sulla pelle nostra e della nostra terra”. Piaccia o meno, tale imperativo è la proposta più costruttiva oggi disponibile contro la peggior barbarie.

 

 

 

 

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