Crescita e lavoro, divorzio totale

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Le organizzazione sindacali sono tra le più attive propagandiste del mantra della crescita, di fatto principale condivisione ideologica con il mondo imprenditoriale. Il maggior sindacato italiano, la CGIL, ha addirittura dedicato uno sciopero generale alla necessità di crescere, indetto il 6 maggio 2011.
I sindacati e la sinistra in generale sostengono la necessità di incrementare il PIL perché l’aumento di reddito consentirebbe di allargare la base imponibile (con cui sovvenzionare i servizi al cittadino) ma soprattutto permetterebbe di fronteggiare la disoccupazione, secondo il ragionamento: più produttività = più posti di lavoro. Tale equazione – talvolta chiamata ‘effetto cascata’ – considerata una verità auto-dimostrata da tutti, dai liberisti più sfrenati ai comunisti più irriducibili, effettivamente ha avuto senso nel periodo dei ‘trenta gloriosi’ (1945-1975) quando la ripresa economica europea post-bellica era guidata dal modello di produzione fordista e da logiche economiche keynesiane basate su grandi investimenti pubblici a sostegno dei mercati interni, accompagnate a un progressivo accordo con le forze sindacali per migliorare le condizioni della classe lavoratrice, creando le premesse per un aumento dei consumi che originasse una congiuntura economica favorevole. Con tassi di crescita stabili intorno al 5-6% in un continente da ricostruire e modernizzare, la disoccupazione non fu mai un problema evidente.
Questo quadro però è drammaticamente cambiato a partire dagli anni Settanta, con la saturazione dei mercati europei, la fine della convertibilità del dollaro in oro e soprattutto con l’introduzione sempre più massiccia dell’automazione e delle tecnologie informatiche nella produzione industriale. Le tecnologie labor saving hanno permesso di risparmiare risorse umane e lo sviluppo delle reti informatiche ha emancipato il capitale dai vincoli della nazione di origine, spianando la strada alla produzione delocalizzata nelle aree del pianeta a minor costo del lavoro (il tramonto del fordismo e l’avvento del toyotismo su scala internazionale). Nel suo bestseller La fine del lavoro, Jeremy Rifkin ha affrontato per la prima volta questa scomoda verità:

“In un mondo nel quale il progresso tecnologico promette un incremento drammatico della produttività e della produzione aggregata, marginalizzando o eliminando dal mercato milioni di lavoratori, l’«effetto a cascata» sembra un’ingenuità, se non una vera stupidaggine. Continuare ad affidarsi a un obsoleto paradigma della teoria economica in un’era post-industriale e post-terziario rischia di essere disastroso per l’economia nel suo complesso e per la stessa civiltà del XXI secolo…
Oggi molte persone trovano difficile comprendere come il computer e le altre tecnologie introdotte dalla rivoluzione informatica – che avevano sperato fossero in grado di liberarli – possano invece essersi trasformati in un mostro meccanico che deprime i salari, distrugge l’occupazione e minaccia la stessa sopravvivenza di molti lavoratori. Ai lavoratori americani era stato fatto credere che, diventando sempre più produttivi, sarebbero riusciti a liberarsi dalla schiavitù del lavoro; ora, per la prima volta, si sta dicendo loro che spesso gli aumenti di produttività non provocano aumenti del tempo libero, ma code all’ufficio di collocamento”.

Solo per riportare alcuni dati concreti, nel febbraio-marzo 2010 la Commissione europea ha calcolato per la UE un aumento del PIL pari allo 1% – superiore a quella stimato, lo 0,7% – mentre contemporaneamente l’Eurostat registrava una disoccupazione stabile intorno al 10%. Nello stesso anno la Germania, locomotiva della crescita europea, a fine giugno segnava un +3,7% rispetto all’anno precedente e contemporaneamente 134.800 lavoratori tedeschi del comparto industriale perdevano il posto. Gli USA addirittura hanno chiuso l’ultimo trimestre del 2009 con una crescita netta del 5,7%, ma il Dipartimento del lavoro nel gennaio 2010 ha constato solo un lieve rallentamento del trend negativo, non una ripresa dell’occupazione.
Ma l’Europa e gli USA rappresentano il ‘vecchio’ mondo incapace di affrontare le sfide dell’economia attuale, per cui forse è più corretto concentrare l’attenzione sull’inarrestabile ascesa dei paesi del cosiddetto BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina. Ecco le percentuali relative alla disoccupazione nel 2009, confrontate con la crescita economica media annua del quinquennio 2004-2009 (dati tratti da Il mondo in cifre 2012, edito da The Economist):

Brasile: crescita 3,5% disoccupazione 8,3%
Russia: crescita 3,9% disoccupazione 8,2%
India: crescita 8,3% disoccupazione 4,4%
Cina: crescita 11,4% disoccupazione 4,3%

Se Brasile e Russia preoccupano, perché i dati sulla disoccupazione non sono molto dissimili da quelli della zona Euro (9,4%) – che però, si badi bene, è cresciuta solo dello 0,8% – i due giganti asiatici sembrano invece confermare gli assunti tradizionali. In realtà, basta non fermarsi alla superficie per scoprire una verità sconcertante: India e Cina possono vantare una disoccupazione relativamente bassa perché, per molti aspetti, sono ancora paesi non completamente sviluppati. Di fatto, malgrado la grande esplosione industriale, sono ancora nazioni prevalentemente agricole, perché in Cina l’agricoltura occupa il 38% della popolazione, in India addirittura il 52% (a titolo di paragone, nell’Unione Europea gli addetti all’agricoltura sono poco più del 5%). Questi dati indicano la persistenza di un’agricoltura tradizionale a bassa tecnologia, che richiede un alto tasso di manodopera. In Brasile e in Russia, dove è già iniziata da tempo la modernizzazione del settore, gli addetti all’agricoltura sono rispettivamente il 20% e il 10%. Una volta promossa una massiccia modernizzazione agricola, ampiamente sostenuta da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, anche Cina e India si troveranno a fare i conti con lo stesso problema.
Se la crescita non è la soluzione ma un problema per la creazione di posti di lavoro, come intervenire a favore dell’occupazione? Le risposte sono fondamentalmente tre:

1) operare una drastica riduzione degli orari di lavoro e pensare a interventi come il reddito di cittadinanza per liberare il tempo umano dal lavoro;
2) riconvertire la società e l’economia a una logica di sostenibilità. Solo nel settore del risparmio energetico si potrebbero ottenere risultati impressionanti: il Rapporto sull’efficienza energetica redatto da ENEA e CESI RICERCA e poi ripreso dalla Commissione Energia di Confindustria, sostiene la necessità di un “piano straordinario di efficienza energetica”, che secondo le stime sarebbe in grado in 10 anni di creare 1,6 milioni di occupati in più, permettendo un aumento della produzione industriale di 238 miliardi, il taglio di 207 milioni di tonnellate di CO2 e 14 miliardi di risparmio in bolletta.
3) intraprendere una seria riflessione sullo sviluppo tecnologico, che dovrebbe riconsiderare la possibilità di una tecnologia a basso consumo energetico e ad alta intensità di lavoro, meno alienante e più a misura d’uomo (una tecnologia ‘conviviale’ o ‘intermedia’, per utilizzare le definizioni di Ivan Illich ed Ernst Friedrich Schumacher)

Infine, a livello individuale e comunitario (è difficile immaginare un sostegno statale), si possono promuovere le pratiche di ‘scollocamento’ rese celebri da Simone Perotti nelle sue opere.
Se non si intraprenderà una svolta in questa direzione, possiamo solo sprofondare ulteriormente nel baratro della grande crisi economica, ecologica e sociale insieme alle illusioni di crescere.

4 Commenti

  1. Gentilissimo Igor,

    condivido tutta l’analisi ma vorrei proporti qualche riflessione (e necessaria correzione) alla proposta.

    Parto dal secondo punto: creazione di occupazione grazie alla green economy (quella vera). Beh, direi al più RICONVERSIONE (parziale) dell’occupazione poichè se è vero che oggi la Green Economy potrebbe assorbire grosse quantità di lavoratori presto, con il precipitare del sistema e disoccupazione dai settori “tradizionali” in crescita libera, sarà difficile arginare l’alluvione. Ma soprattutto deve essere chiaro che questa è solo una fase transitoria. Se ristrutturiamo le case, se usiamo i mezzi pubblici, se risparmiamo ed evitiamo gli sprechi, in poco tempo avremo ancora meno bisogno di lavoro e, soprattutto, avremo bisogno di minore reddito. E qui vengo al primo punto, che è il cruciale. La riduzione del bisogno di reddito DEVE portare ad una revisione culturale complessiva: ho bisogno di minore reddito => lavoro meno e guadagno meno, e non il contrario. Il minor lavoro procapite è l’unica forma di riequilibrio che consente a chi è fuori dal mondo del lavoro di entrarci (evitando peraltro di costringerlo a “vivere alle spalle di chi lavora a tempo pieno”). Allora la questione non è quella di fissare un reddito minimo di cittadinanza ma di disincentivare il troppo lavoro (ed il troppo reddito): Sai un Manager di successo? Lavori da 10 anni tutti i giorni della settimana e guadagni 400’000 Euro all’anno e ne paghi 200’000 di tasse? Dall’anno prossimo la tua aliquota di tassazione passa dal 50% al 55%!!! (scusa la semplificazione).

    Quanto al terzo punto non condivido assolutamente, però so’ che è il più difficile da accettare perchè è una ricetta che che è stata proposta anche dallo stesso Rifkin nel libro da te citato: lo scopo della vita è liberarsi dal lavoro (saprai bene che Maurizio Pallante inizia spesso i suoi incontri ricordando che l’articolo 1 della nostra costituzione dovrebbe essere modificato in “L’Italia è una repubblica fondata sull’ozio”, precisando che si riferisce a quello contemplativo non quello dello zapping davanti alla TV) e quindi la tecnologia deve proseguire il suo servizio all’uomo di ridurre sempre più la necessità del lavoro.

    Il fatto è che occorre distinguere fra i tre tipi di “attività” (o di lavoro) in cui l’uomo impegna le proprie facoltà (fisiche ed intellettuali: L’AUTOPRODUZIONE (coltivarsi la lattuga, accudire gli anziani, aggiustarsi la casa, educare i figli, ecc…), L’OCCUPAZIONE (il lavoro retribuito con cui procurarsi il reddito necessario a comprare ciò che non si può autoprodurre) e l’IMPEGNO SOCIALE cioè tutta l’attività svolta “gratuitamente” a beneficio della collettività (Volontariato, associazionismo, impegno politico, ecc…). Ebbene la soluzione stà nel fatto che, culturalmente, occorre comprendere che la riduzione del tempo dedicato all’occupazione (grazie a tutto quanto sopra, con particolare riferimento alla capacità della tecnologia di liberarci dal lavoro) deve andare a beneficio dell’autoproduzione ma, soprattutto, dell’impegno sociale.

    Spero vorrai aver voglia di dirmi cosa ne pensi di quanto sopra e, soprattutto, di discuterne durante il Workshop dal titolo “LAVORARE MENO, GUADAGNARE MENO, ESSERE PIU’ RICCHI” che avrà luogo il prossimo 21 settembre durante la III Conferenza sulla Decrescita di Venezia (www.venezia2012.it)

    Grazie per l’attenzione, Nello

  2. Caro Nello (e se ho capito bene anche caro collega), ti ringrazio delle osservazioni: in quel piccolo contributo, nella limitatezza di spazio, mi interessava soprattutto negare l’equazione crescita=lavoro con qualche dato concreto (non l’ho visto fare spesso da parte dei fautori della decrescita) piuttosto che concentrarmi sulle possibili alternative e reinterpretazioni dei concetti di lavoro/occupazione (dove esiste invece copiosa produzione). Allo stesso modo non si può prescindere da una giustizia sociale intesa non nei soliti clichè di sinistra di redistribuire la torta ma di una minore sperequazione sociale. Il reddito di cittadinanza è una proposta controversa, ho visto persone dover sacrificare il loro talento per mangiare e costrette a trovare occupazioni molto grigie; sarebbe anche un modo per sostituire tutte quelle indennità che richiedono il soddisfacimento di particolari requisiti e quindi autorità di controllo e vigilanza (e quindi spese). Forse anche solo come misura transitoria andrebbe considerato.
    Non capisco invece perché ti trovi in disaccordo sul punto 3, ossia lo sforzo verso una tecnologia ‘intermedia’ o ‘conviviale’ che significa riportare il rapporto uomo-tecnologia a una dimensione umana e non alienante (anche perché le tecnologie ad alta intensità di energia e bassa di lavoro finiranno alla lunga per escludersi da sole vista la loro insostenibilità).
    Ovviamente la transizione che, volenti o nolenti, ci accingiamo ad affrontare richiede un netto cambiamento culturale che non può prescindere dalla distruzione di idola consolidati. Anzi, devo dire che personalmente mi trovo ancora in questa fase destruens, e i contributi che vorrei portare in questo sito più che un tentativo di insegnare qualcosa agli altri vogliono essere il desiderio di condividere una presa di coscienza ancora in corso. Mi sento ancora molto ‘a metà del guado’ e ho moltissimo da imparare, sono ben lontano dall’immagine tradizionale dell’obbiettore di crescita (ad esempio ho la manualità di un tricheco e ho ancora un cordone ombelicale piuttosto forte con quella civiltà termo-industriale che tanto critico).

    • Gentilissimo Igor,
      grazie per l’attenzione e scusami per il ritardo con cui ti rispondo.

      Provo a spiegare meglio il mio disaccordo con il punto 3: non intendevo dichiararmi in disaccordo con la convivialità e l’umanizzazione della tecnologia, nell’uso quindi della tecnologia (e della ricerca da cui essa nasce) a beneficio dell’uomo e non del sistema economico. Intendevo “contestare” l’idea che questa tecnologia fosse necessariamente “ad alta intensità di lavoro” e cioè che dopo la transizione ci trovassimo a dover lavorare (nel senso di “essere occupati”) di più invece che di meno. Un esempio? Le tecnologie agricole quali la Permacultura ed in particolare la sua implementazione in termini di Agricoltura Naturale (http://it.wikipedia.org/wiki/Agricoltura_naturale), che hanno come scopo (direi primario) la riduzione del lavoro umano necessario.

      Colgo l’occasione per dirmi assai d’accordo con te con il fatto che “noi decrescenti” non abbiamo sufficiente determinazione nel negare l’equazione crescita=occupazione al punto che in alcuni casi arriviamo addirittura a declinare ipotesi del tipo decrescita=occupazione che è evidentemente un ossimoro se non si dice quello che è vero e cioè che durante la fase di transizione sicuramente è vero che la decrescita può richiedere maggiore occupazione (manutenzioni e ristrutturazioni per riduzione sprechi) ma che questo “sposta” occupazione da altre attività e non la crea e che comunque a transizione avvenuta la necessità di occupazione si riduce notevolmente (ed a questo ci dobbiamo preparare), come cercavo di spiegare all’inizio del mio precedente commento.

      A presto, Nello

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