Decostruendo Contro la decrescita #3

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Puntata 1Puntata 2

Fonti tendenziose, fonti omesse

Se Contro la decrescita fosse stato pubblicato ancora nel 2008, il capitolo ‘I limiti della crescita’ avrebbe mantenuto una certa validità all’interno del dibattito sul Rapporto. Ma, essendo uscito nel 2014, sono palesi la parzialità e la mancanza di qualsiasi rigore scientifico nell’uso delle fonti. Forse per deformazione professionale, Simonetti ha agito non da intellettuale ma da avvocato, selezionando i ‘testimoni’ favorevoli alla propria causa ed escludendo qualsiasi voce contraria, per poi trinciare un giudizio senza appello contro i decrescenti, ossia dimostrare che la tendenza ‘a prendere per necessità ineluttabili cose che sono, al più, dei rischi, raggiunge livelli parossistici’. In questo modo vengono inoltre stroncati come pseudo-scienziati ricercatori quali Dupuy, Tainter, Cosenza; una condanna che, ricordiamolo, proviene da una persona che ha letto I limiti dello sviluppo fraintendendo lo scopo della ricerca.

Tutto ciò utilizzando come fonte principale contro lo studio del 1972 l’articolo di Smil illustrato nella puntata precedente, risalente al 2005, ignorando completamente altre due importanti ricerche sull’argomento:

Graham Turner, A comparison of The Limits to Growth with 30 years of reality (2008)

Charles A.S. Hall, John W.Day: Revisiting the Limits to Growth After Peak Oil (2009)

Questi contributi sono liberamente disponibili on line e, a differenza di quelli usati da Simonetti, oltre a essere più recenti sono basati sulla comparazione tra le previsioni del Rapporto e i dati reali. Entrambi dimostrano che le approssimazioni del gruppo di ricerca del MIT non sono state affatto lontane dai riscontri effettivi (1).

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I valori riscontrati nel 2008 riguardo a numero di abitanti della Terra, risorse e output industriale pro capite sono molto simili a quello previsti nello scenario base. (Fonte: Hall e Jay)

Nella bibliografia di Contro la decrescita compare l’articolo In defence of degrowth di Giorgos Kallis, dove la ricerca di Hall e Jay viene esplicitamente citata, insieme a contributi di Martinez-Allier e altri autori: sono stati completamente ignorati da Simonetti. Idem per il libro di Ugo Bardi La terra svuotata (2011), che non appare in bibliografia.

Simonetti non appartiene al mondo accademico scientifico, quindi tali contributi possono essergli sfuggiti in tutta onestà, cosa che però dovrebbe renderlo più cauto nel formulare giudizi radicali su una materia di cui ha poca dimestichezza. C’è però un altro aspetto riguardo la scelta delle fonti che getta un alone decisamente fosco su tutta la discussione intorno ai limiti della crescita.

Simonetti sicuramente conosce il libro di Bardi The limits of growth revisited, uscito nel 2011, profonda disamina sull’attualità dell’edizione originale del Rapporto del 1972. Ne abbiamo la certezza perché è lui stesso a citarlo in una nota al testo, pur solamente per un breve rimando alle premesse metodologiche del gruppo di lavoro del MIT. Non una parola invece sul contenuto dell’opera.

Intendiamoci: una ricerca recente non è di per sé preferibile a una più datata (nel caso di Contro la decrescita, l’articolo di Smil); tuttavia, obbliga chi la difende a dimostrarne la superiorità, specialmente se i nuovi studi portano a sostegno dati empirici e argomentano contro le principali critiche rivolte al Rapporto (l’intero capitolo 7 di The limits of growth revisited è dedicato a questo scopo).

Lo scambio di vedute con Simonetti sul sito di DFSN sembra escludere che la nota al testo contenuta in Contro la decrescita sia un’operazione di editing compiuta all’insaputa dell’autore. Scrive infatti Simonetti in un commento del 13 novembre:

Dal canto suo, il professor Bardi tende, a mio parere, a essere un po’ troppo ossessionato dall’ansia di voler difendere a tutti i costi i Meadows, che non ne hanno bisogno: Limits to Growth è stato e rimane un gran libro, nonostante i suoi molti difetti.

In cosa consisterebbero tali ‘ossessioni’? Simonetti non lo dice ed è plausibile che si astenga dal farlo in un commento Web, ma nel libro era doveroso esprimersi in merito, spiegare perché escludesse una fonte più recente e completa; vista l’intensa attività di Bardi sulla Rete, sicuramente sarebbe intervenuto vedendo il proprio lavoro messo in discussione e sarebbe sorto un dibattito intenso e proficuo. In ogni caso, se Simonetti davvero ha dubbi fondati sull’analisi di Bardi, ha sbagliato a non inserirli nel libro ed è auspicabile che li renda di pubblico dominio: se avesse ragione, potrebbe aver inflitto gravi danni alla credibilità generale del Rapporto. (2)

L’unica spiegazione plausibile, finché non avremo un chiarimento decisivo dell’autore, ci proviene da un altro commento lasciato da Simonetti:

Ma la sua (di Bardi, n.d.r.) mi sembra solo una nuova versione della teoria di Georgescu sulla “quarta legge della termodinamica”, che è già stata ripetutamente confutata (i riff. bibliografici li rinvio alla prossima risposta).

La bibliografia di cui parla sarà oggetto di analisi in una puntata successiva; Bardi effettivamente porta riscontri empirici alla cosiddetta quarta legge della termodinamica di Georgescu Roegen (secondo cui anche la materia è soggetta a perdita entropica) nel libro La terra svuotata, spiegando come il fenomeno del downcycling impedisca il riciclo ‘infinito’ della materia; ma l’analisi de I limiti dello sviluppo prescinde da questa considerazione, perché il modello previsionale utilizzato nel Rapporto chiarisce che l’abbondanza di risorse posticipa ma non impedisce il collasso economico e ambientale – nelle puntate precedenti abbiamo già evidenziato come in Contro la decrescita si confondano crisi economica ed esaurimento delle risorse.

Oltre all’omissione dei lavori di Bardi, è molto strana anche la parsimonia nei riguardi di Randers e del suo libro 2052, citato solo in una nota per spiegare che il danese, considerando nella sua analisi quarantennale 2012-2052 solo la CO2 e non altri tipi di inquinamento, giunge a conclusioni più ottimistiche di quelle del Rapporto. Per la verità, è un ottimismo molto all’acqua di rose: Randers immagina che in quel lasso di tempo il tasso di crescita medio globale sarà dello 0,6% annuo (contro un tasso ideale, secondo la Strategia di Lisbona della UE, del 3%), ma concentrato quasi esclusivamente nei paesi in via di sviluppo, mentre l’Occidente sarà segnato da una stagnazione cronica se non addirittura da una riduzione del PIL pro capite. Si prevede che il riscaldamento globale del pianeta, nel frattempo, non provochi pesanti devastazioni ecologiche, ciononostante tale scenario non sembra affatto idilliaco: l’Occidente – e in particolare il suo paese leader, gli Stati Uniti – dilaniato al suo interno da una crisi sociale sempre più vasta, rimarrà a crogiolarsi nella ‘stagnazione secolare’ contemplando pacificamente l’esodo di capitali verso le nazioni emergenti? In 2052 si lascia intendere che andrà così, ma il recente passato del colosso americano, contrassegnato dall’imperialismo a stelle e strisce della presidenza Bush, e le recenti tensioni USA-Russia per la questione ucraina, non sono esattamente di buon auspicio.

Anche Randers confida nello sviluppo tecnologico, ma meno convintamente di Simonetti, e alcune delle sue proposte (abitazioni con isolamenti migliori e più vicine ai posti di lavoro; colture meno bisognose di fertilizzanti e acqua) rientrano tra le proposte della decrescita. Non crede invece alla scoperta di nuovi fonti energetiche o materie prime che rivoluzionino la produzione.

Ma c’è un’altra la considerazione che rende tabù l’analisi di Randers per Simonetti, il fatto che attribuisca la responsabilità principale del degrado ambientale alla crescita economica. Condivide con Simonetti l’idea che la crescita, nella società di mercato, adempia alla funzione di creare occupazione e di permettere una parziale ridistribuzione della ricchezza, ma tutto ciò aggrava il problema, aumentandone la dipendenza:

Non credo che sia possibile convincere le persone a rinunciare alla crescita. Le società democratiche perseguiranno la soddisfazione a breve termine e sceglieranno i loro leader di conseguenza. Di conseguenza, il successo nel contenimento dei consumi richiederà una componente di autoritarismo filantropico. (3)

Insomma, Randers – che, è bene rimarcarlo, decrescente non è – si cruccia del fatto che la popolazione non segua la filosofia della decrescita, sarebbe tutto più semplice e si potrebbero evitare le maniere forti ‘a fin di bene’. Simonetti preferisce bypassare qualsiasi riferimento, ed anzi opera un capovolgimento dialettico nei due capitoli finali, dove denuncia delle analogie che, a suo dire, sussistono tra la decrescita e le idee di movimenti conservatoristi di inizio Novecento, ispiratori del fascismo e del nazionalsocialismo.

In definitiva, Simonetti (e chichessia) può nutrire qualsivoglia opinione su I limiti dello sviluppo; come del resto si è liberi di credere nella fusione fredda, nel creazionismo o in Babbo Natale, malgrado l’evidenza indichi il contrario. Tuttavia, è opportuno distinguere la doxa dalla sophia. Simonetti, in spregio a qualsiasi rigore metodologico sull’uso delle fonti, attacca il Rapporto con armi dialettiche risalenti al 1999-2005, ignorando – in certi casi deliberatamente – la letteratura scientifica più recente sui limiti della crescita. Come si può chiamare questo atteggiamento? Fideismo? Opportunismo argomentativo? Wishful thinking? Ideologia?

E poi perché tanto accanimento su I limiti dello sviluppo allo scopo di denigrare la decrescita? Simonetti descrive il Rapporto come una specie di vacca sacra dei decrescenti:

Una pietra miliare, nella storia della decrescita, è stato, nei primi anni Settanta, il celebre rapporto Meadows sui Limiti dello sviluppo (pag. 59)

…molti ambientalisti e decrescenti… citano in continuazione il Rapporto proprio per le ragioni sbagliate, e cioé come se esso formulasse predizioni (pag. 61)

Quest’ultima frase rinvia a una nota al testo con due citazioni, rispettivamente di Orlando Todisco e Pier Paolo Pasolini, risalenti ai primi anni Settanta, cioé a più di vent’anni prima che la parola ‘decrescita’ fosse mai stata pronunciata (Simonetti, un po’ come Berlusconi con i ‘comunisti’, tende a vedere ‘decrescenti’ ovunque). Cerchiamo allora in alcune opere di autori decrescenti riportate in bibliografia (quindi sicuramente lette dall’autore) riscontri di questa fissazione monomaniacale per l’opera dei Meadows.

Nel Breve trattato della decrescita serena di Serge Latouche, da molti considerato la ‘bibbia’ dei decrescenti, al Rapporto vengono dedicate 5 righe su 124 pagine complessive. Bonaiuti ne La grande transizione si limita a una breve chiosa:

Buona parte della letteratura contemporanea sui limiti dello sviluppo (Meadows, Randers, Diamond) si concentra sulla dimensione biofisica, dedicando scarsa attenzione alle trasformazioni istituzionali. (pag .34)

Bonaiuti espone con dovizia di particolari la teoria dei rendimenti decrescenti, che però in Contro la decrescita viene completamente trascurata per lasciare il giusto spazio alla confutazione dell’anarco-primitivismo di John Zerzan. Maurizio Pallante, convinto che ‘bene e meglio’ sia una filosofia valida a prescindere, parla brevemente del Rapporto in due pagine di La decrescita felice, e basta. Anche nell’articolo In defence of degrowth, Kallis cita molti studi più recenti senza mai nominare l’opera del 1972. Dove sarebbe allora tutta questa ossessione evocata da Simonetti?

In realtà, non stupisce affatto che i decrescenti non siano degli ultras del Rapporto, pur riconoscendone il valore scientifico. Appena venne pubblicato I limiti dello sviluppo, la critica di sinistra puntò pesantemente il dito contro il committente dell’opera – il Club di Roma – un’organizzazione di tendenze politiche liberali, accusandola di voler affamare e sterminare il Terzo mondo impedendone lo sviluppo. Al di là di queste sciocchezze, è evidente che lo scopo dello studio si concentra sulla crescita e non sull’inquinamento, l’intenzione del committente è di incrementare la crescita il più possibile senza compromettere eccessivamente la salute del pianeta. È un’analisi più economicista che ecologista, fondamentalmente.

I ricercatori legati alla decrescita, come Kallis e Bonaiuti, non si sono fermati al 1972, anche perché nel frattempo i problemi ecologici sono peggiorati. Perché Simonetti è rimasto ancorato lì? Nella conclusione a questa lunga disamina di Contro la decrescita, proveremo a dare una risposta.

Da queste prime tre puntate di decostruzione, abbiamo compreso che la metodologia impiegata da Simonetti contro I limiti dello sviluppo, tanto inconsistente quanto funzionale a critiche pesanti se non proprio denigratorie, non ha alcun valore scientifico. Potrebbe bastare per dubitare della validità complessiva di Contro la decrescita e dei giudizi espressi dal suo autore. Conviene però soffermarsi sull’intera concezione di Simonetti, perché aiuta a far luce su molti altri aspetti e luoghi comuni consolidati: questo sarà lo scopo delle prossime puntate.

(1) Esiste un altro studio ancora più esaustivo di Graham Turner pubblicato il 4 agosto 2014, forse troppo tardi per le scadenze editoriali di Simonetti.

(2) Scrive Simonetti sempre nel medesimo commento: ‘Quanto a Bardi, non è che non mi voglia ‘confrontare’: se capiterà l’occasione, ben volentieri’. In realtà, chiunque conosca Bardi sa benissimo che è molto facile trovare ‘l’occasione’ per confrontarsi con lui, in quanto – diversamente dalla media degli accademici – è molto aperto al confronto anche con i profani della materia, attraverso il suo profilo Facebook e il blog effettorisorse. Chi scrive è totalmente estraneo al mondo dell’università eppure ha avuto diversi feedback via email e Facebook con Bardi.

(3) Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, pag. 58

Immagine in evidenza: rielaborazione personale immagini creative commons.

Tutte le citazioni presenti nell’articolo di opere protette da diritto di autore fanno riferimento alla legge 22 aprile 1941, n.633, art.70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

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Felice_Mente è un nome collettivo utilizzato per indicare un contributo opera dell'analisi condivisa di Manuel Castelletti, Igor Giussani, Giulio Manzoni, Daniele Uboldi.

7 Commenti

  1. Ciao, ho preparato una prima risposta (riferita al primo post della serie, che se non erro era di Giussani): come volete che la spedisca? Non è brevissima. Un saluto.

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