La felicità nella decrescita

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Un uomo sordido e avaro
osa contrattare
il prezzo delle orchidee

Masaoka Shiki

Scrivo queste riflessioni mentre sono in treno, diretto a sud verso la comunità montana dove vive mia madre. Mentre il verde della campagna fa la gioia dei miei occhi, ripenso a lei, alle sue tazze scompagnate, al fatto che coltiva quasi tutto ciò che mangia, che non possiede nessun mezzo a motore, che raccoglie i rami secchi per il camino. Potrebbe essere un modello di decrescita, ma lei non lo sa, si limita semplicemente a vivere come ha sempre fatto, lontana per cultura dalla logica del consumo.
Oggi, almeno negli ambienti più sensibili ai temi di sostenibilità, si parla molto di decrescita, ma troppo poco di felicità. Eppure la ritengo una tematica centrale nella dialettica di questo movimento, la cui indagine dovrebbe integrarsi con decisione a quella economica, al fine di indicare una nuova e più cosciente direzione umanistica. Ciò che mette in discussione l’attuale modello di crescita in effetti, ancor prima di qualsiasi crisi economica, è il miraggio di una felicità effimera, legata all’affermazione personale, alle aspettative lavorative, al denaro. Ed ecco che si genera l’insoddisfazione cronica che ci predispone all’inquietudine, allo stato di continuo stress dell’asino e la carota mai agguantata. Da un lato siamo fisiologicamente portati alla perpetuazione dell’insoddisfazione, per un meccanismo evolutivo che ci fa correre e lottare per la sopravvivenza e l’egemonia. E anche se dopo tanta fatica raggiungessimo un certo benessere, dopo un po’ la soglia di appagamento dovuta principalmente alla dopamina, si abbasserebbe, così da essere irrimediabilmente costretti a rivolgere la nostra attenzione verso altre lotte e altre conquiste. L’asino e la carota appunto: un circolo vizioso che ci fa scambiare un automatismo neuro-ormonale per felicità.
D’altra parte far dipendere la propria felicità da eventi esterni è fallimentare poiché in tal modo siamo portati ad identificarla con il possesso e la transitorietà. Stiamo in altre parole affidando alle circostanze il dominio sulla nostra felicità e la confondiamo con la gioia e l’appagamento momentaneo. Tuttavia dentro di noi abbiamo chiaro che la felicità è qualcosa di più profondo e ampio e che questa società non fa emergere. Non si può amare se si va di fretta, nè essere felici se non si è pronti all’accoglienza, non si è in grado di ascoltare se tutti urlano e come possiamo imparare la gentilezza se tutti si circoscrivono al recinto della propria individualità, educati a perseguire il primato. Una società basata sul debito economico e su un irresolvibile credito di felicità, in parte costruito su necessità artificiose, è intrinsecamente votata alla scontentezza. Capite il meccanismo? Ci riempiono di falsi bisogni, aspettative e miti posticci facendo leva sulla meccanica di un cervello passivo e primitivo, bombardato e annichilito da milioni di input quotidiani per lo più alienanti, preda della logica dell’obsolescenza programmata dei beni, soggiogato dalla legge della competizione e del predominio, dalle idee che si trasformano in miti e che finiscono letteralmente col possederci, come il mito della crescita economica all’infinito. In effetti come non dar ragione a Latouche, che nel suo ultimo saggio denuncia questa società come quella che è riuscita a tirar fuori i peggiori sentimenti dalla nostra anima.
La felicità certamente ha a che fare con la presenza e l’apertura, riconoscendoci parte di una vasta rete in cui si dirama la trama della vita nei suoi cicli naturali. Una maggiore frugalità e lentezza, l’abbandono progressivo della competizione in favore di una maggiore cooperazione, sono fattori senz’altro propizi alla scoperta di una felicità più autentica. Ma a me piace vedere la decrescita come naturale conseguenza della ricerca di una felicità vera e condivisa piuttosto che il contrario. O quanto meno il tema della decrescita va considerato non solo nei suoi effetti economici, pur importanti, ma anche nei suoi termini sostanziali: la riappropriazione della nostra cultura umana, della capacità di riconnetterci col naturale riconoscendovi le innumerevoli interdipendenze. Voglio finire poi con un’ulteriore piccola provocazione, ossia un invito ad abbattere persino il mito della felicità. Smettiamola di volerci sentire felici e in pace con tutto e piuttosto rilassiamoci nel flusso della vita, impariamo a stare con noi stessi e gli altri in modo aperto, senza giudizio, impariamo ad accoglere e siamo gentili con noi stessi e ciò che ci circonda. Solo così ci si può avviare verso un’autentica felicità.
Termino di scrivere queste parole quando alzo gli occhi e noto che tutti attorno a me hanno uno sguardo serio, se non triste. Sguardi sparati ad oltre 200 km/h, nel verde di una campagna fatta di fili d’erba, di piccoli insetti, alberi, terra e pietre. Lontano le montagne azzurre e mia madre che mi attende con i suoi mandarini maturi.

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Mi interesso di filosofia orientale, letteratura, fisica, matematica, chimica, fotografia, arte, musica, scienza dell'alimentazione, tai-chi, zen, pittura ad inchiostro, linux e linguaggi di programmazione. Attualmente sono iscritto a Science alla Open University, e seguo diversi corsi online su piattaforme istituite da università estere. Mi muovo spesso in bici o a piedi, pratico meditazione zen e di tanto in tanto subacquea e vela. Strimpello un pianoforte e adoro le danze caraibiche. Ho pubblicato alcune raccolte di poesie in Creative Commons ed esposto fotografie stampate con tecniche antiche.

8 Commenti

  1. Hai scritto quello che sento… e che sentiamo in molti ormai. E per fortuna!
    Spero che il recupero della naturalità della vita e l’accoglienza del flusso di energia dell’essere che ci accomuna sia sempre più presente e prioritario per ognuno di noi.

  2. Complimenti Fabio, riflessione che condivido pienamente.
    Anchè Marx era caduto nell’errore di credere che il mercato fosse l’elemento più socializzante della vita pubblica. Cioè quello spazio sociale che poteva rispondere a tutte le necessità psicofisiche dell’uomo! hai fame? nel mercato trovi da mangiare! vuoi essere felice? nel mercato trovi la felicità!
    Ma non è così semplice, perchè la natura risponde alla qualità, anche la natura assopita nell’animo umano finisce per rispondere alla qualità, cerca inconsciamente la qualità che non trova nel mercato perchè la pretesa socializzazione si è tradotta in quantità. Rendendo “quantitativo” quel superamento che pretendeva d’essere “qualitativo”!!!
    Baden Powell (fondatore dello scoutismo) diceva: “la felicità è fare la felicità degli altri” questa si che è qualità!
    un saluto

  3. Sono pienamente e profondamente d’accordo . Ho 56 anni e mi reputo fortunato di avere visto e vissuto come era la vita negli anni prima del boom economico. Cose semplici e ESSENZIALI . Credo che dovremmo ripensare a quel modo di vivere ,sicuramente più umano e adattarlo ai nostri tempi.
    saluti Roberto

    • Roberto, hai espresso perfettamente il mio pensiero. Sempre di più mi convinco che per stare bene dobbiamo abbandonare questa corsa al consumismo, rivalutare la semplicità, tutto quello che non si *compra*, ma si crea, insieme.

  4. Grazie infinite a tutti, sono lieto che vi ritroviate nelle mie riflessioni. Che possano esservi di stimolo a trovare la vostra strada. Un saluto

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