La ferrea (il)logica dello sviluppo (in)sostenibile

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‘Sviluppo sostenibile’ è un’espressione quanto mai di moda, un’etichetta che viene appiccicata indifferentemente a soggetti molto diversi tra loro. Persino Renato Brunetta e Franco Frattini, non particolarmente noti per l’amore verso la natura, hanno collaborato alla stesura del Manifesto per lo Sviluppo Sostenibile della FREE/Foundation for Research on European Economy e di Amici della Terra; ma anche il centro-sinistra può vantare i suoi assi. Le indagini della magistratura hanno scoperto che Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita balzato agli onori delle cronache per l’accusa di appropriazione indebita delle casse del partito, effettuava versamenti sospetti a favore del Centro per il futuro sostenibile, fondazione presieduta da Francesco Rutelli con lo scopo (dichiarato) di promuovere lo sviluppo sostenibile.
Le origini del concetto di sviluppo sostenibile risalgono al 1972, anno in cui venne redatto il rapporto I limiti dello sviluppo, commissionato dal Club di Roma a un gruppo di scienziati del Mit. Gli autori mettevano in guardia contro il pericolo dell’esaurimento delle risorse naturali e auspicavano un’economia stazionaria che rinunciasse alle pretese di crescita infinita; tuttavia, bisognerà aspettare vent’anni prima che queste problematiche trovassero la meritata attenzione sul piano politico, con la Conferenza sul clima di Rio de Janeiro del 1992.
Cinque anni prima, la Commissione mondiale sull’ambiente aveva provato ad affrontare la spinosa questione della conciliazione tra crescita e preservazione dell’ambiente in una relazione intitolata Our common future (noto in Italia come Rapporto Brundtland, dal nome della coordinatrice della commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland), in cui per la prima volta si parlò di ‘sviluppo sostenibile’, presentato come

“forma di sviluppo che permette di soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la capacità delle generazione future di soddisfare i loro”.

Fin qui si tratta di un auspicio di alto valore morale assolutamente condivisibile. I problemi sorgono quando le vecchie generazioni cominciano a fare supposizioni sui bisogni di quelle future: quanto dovranno i posteri limitare le loro pretese rispetto ai progenitori baby boomers? Al riguardo, il Rapporto Brundtland stringe l’occhio alla tecnologia come mezzo di emancipazione dai limiti naturali:

“Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall’attuale stato della tecnologia e dell’organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnica e la organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica”.

Niente paura, insomma: ci sarà un nuovo boom economico, paragonabile a quello del secondo dopoguerra (altrimenti che ‘era di crescita’ sarebbe?), quindi le future generazioni possono tirare un sospiro di sollievo, insieme ovviamente al mondo imprenditoriale terrorizzato all’idea di ridurre i suoi volumi di affari. Ci penserà la tecnologia a risolvere tutti i problemi.
Il Nobel per l’economia Robert Solow deve essersi ispirato a idee del genere, quando nel suo saggio Intergenerational equity and exhaustible resources ha scritto che

“non c’è in linea di principio alcun problema; il mondo può in effetti andare avanti senza risorse naturali”.

Alcuni burloni hanno preso alla lettera l’economista americano ipotizzando che allora in futuro si potranno cucinare pizze sempre più grandi senza ricorrere alla farina, grazie a forni sempre più sofisticati (forse siamo troppo malevoli con Solow: mosso dalla necessità, l’ingegno umano può trovare soluzioni miracolose. Ad esempio nel 2007, quando in Messico il prezzo del mais schizzò alle stelle a causa del suo impiego come biocarburante, la popolazione più povera ricorse all’argilla per preparare la tradizionale tortilla. Chissà se un fatto del genere rientra nel modello di Solow).
Se lo sviluppo sostenibile non è solo uno slogan, allora i buoni propositi devono sfociare in qualcosa di concreto, in un programma che numeri alla mano chiarisca come si possa conciliare crescita economica e salvaguardia del pianeta e delle generazioni future. Su quest’aspetto i sostenitori dello sviluppo sostenibile sono molto carenti perché tale operazione è stata tentata seriamente in un solo caso e, come vedremo, con esiti decisamente insoddisfacenti.

La IEA e lo Scenario 450

Le conferenze mondiali sul clima che hanno aperte l’era post-Kyoto – Copenaghen 2009, Cancùn 2010 e Durban 2011 – hanno impostato il dibattito sui cambiamenti climatici accettando la tesi più volte ribadita dalla IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, la commissione climatica dell’ONU) secondo cui l’obiettivo fondamentale è impedire che la temperatura media del pianeta oltrepassi i 2°C. Per fare ciò occorre che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera non superi i 450 ppm (parti per milione), quindi le nazioni del mondo godrebbero di un ‘bonus’ (oggi la concentrazione rasenta i 400 ppm) per aumentare le emissioni, per poi ridurle gradualmente: in caso di infrazione di tale limite, i climatologi hanno paventato il rischio di conseguenze irreversibili per il pianeta. Seguendo le prescrizione dell’IPCC, la IEA (Agenzia Internazionale per l’Energia) si sforza da alcuni anni di elaborare un modello energetico che coniughi lotta ai cambiamenti climatici e crescita economica, chiamato Scenario 450, che viene allegato al World Energy Outlook (WEO) pubblicato annualmente dall’agenzia. Nella versione divulgata nel 2011, lo Scenario 450 prevede un trend di crescita dei consumi energetici dell’1,4% annuo fino al 2020, che dovrebbe ridursi allo 0,3% annuo tra il 2020 e il 2035; a pag. 212 del WEO 2011 appare questa tabella di previsione dei consumi di energia primaria (cliccare sull’immagine sopra il titolo del post) energia

Chi è un po’ pratico della materia resterà molto perplesso riguardo al dato 2009 sull’energia nucleare, perché 730 MTEP annui vorrebbero dire più di 8100 TWh di produzione elettrica mentre la stessa IEA in altri dispacci ci informa che le centrali atomiche contribuiscono per circa 2700 TWh; come spiegare la contraddizione? Di fatto la IEA ragionando in MTEP (ossia milioni di tonnellate di petrolio equivalenti) adotta un criterio, abbastanza discutibile, per cui un kWh di energia elettrica generata da un reattore nucleare evita il consumo di un’energia primaria equivalente moltiplicata per tre (circa) di combustibili fossili. In pratica, quello che compare nella tabella è il rendimento ideale del reattore, che in realtà non riesce a convertire più del 30-35% del calore prodotto dalla fissione in energia elettrica, limite insuperato anche per i nuovi reattori di terza generazione (ringrazio pubblicamente il professor Ugo Bardi per avermi chiarito questo aspetto in uno scambio privato per email).
Ne consegue pertanto che, anche nella previsione ottimistica del 2035, il nucleare contribuirebbe per meno del 4% ai consumi di energia primaria, e quindi le fonti fossili sarebbero ancora più del 63% del totale. Ma aumentare del 140% la produzione di energia atomica richiederebbe la costruzione ex novo di più di 200 centrali e la sostituzione di circa novanta unità di prima e seconda generazione che verso il 2015 arriveranno al termine del ciclo operativo, con paesi come Germania, Svezia, Svizzera e Giappone che hanno annunciato la graduale uscita dall’atomo dopo il grave incidente di Fukushima. Come se non bastasse, se anche si concretizzassero gli sforzi titanici per sostenere un simile programma di espansione, si andrebbe incontro a una beffa terribile, perché secondo la guida Uranium from mine to mill compilata nel 2010 dalla World Nuclear Association le riserve di uranio ‘commerciale’ (estraibile a un prezzo inferiore a $80/kg) permetterebbero non più di una ventina d’anni di autonomia, dopodiché bisognerebbe incrociare le dita e sperare che l’industria del settore sia riuscita a mettere in commercio i fantomatici reattori auto-fertilizzanti di IV generazione (tutti gli esperimenti di reattori autofertilizzanti tentati finora – Beloyarsk-3 in Russia, Monju in Giappone e Superphénix in Francia – sono miseramente falliti, a causa dell’elevata pericolosità nel trattamento del plutonio).
Quello relativo al nucleare non è l’unico elemento controverso dello Scenario 450 ma solo la punta di un iceberg. Ad esempio:

– 240 MTEP in più di energia idroelettrica corrispondono alla costruzione di una trentina di maxi-dighe sul tipo di quella cinese delle Tre Gole sul fiume Yangzte, che ha costretto a sfollare due milioni di persone e sommerso innumerevoli villaggi;
– viene definita ‘opzione chiave’ l’utilizzo delle centrali a carbone con sequestro di carbonio (CSS), una tecnologia basata più sul desiderio di mantenere il carbone che su motivazioni ecologiche. Lo stoccaggio della CO2 in depositi sotterranei è infatti difficilmente fattibile e molto pericoloso;
– contrariamente alle indicazioni di molti scienziati (ad esempio del gruppo ASPO), la IEA pospone il picco della produzione del petrolio al 2020, e quello del gas a data da destinarsi;
– la IEA punta pericolosamente sulle biomasse al fine di realizzare biocarburanti per sopperire al picco del petrolio. Nel rapporto si precisa che, dei 2329 MTEP di energia da biomassa da produrre nel 2035, il 29% – ossia 675 MTEP – dovrebbe essere destinata alla produzione di biocarburanti, ma già oggi che se ne consumano ‘solo’ una sessantina di MTEP (stima del BP Energy Outlook 2030) esistono gravi problemi di concorrenza con l’agricoltura destinata all’alimentazione umana;
– la IEA stima che la realizzazione complessiva del programma richiederebbe un investimento di 36,5 trilioni di dollari tra il 2011 e il 2035, ossia 1,5 trilioni di dollari all’anno – un ammontare che, per intenderci, equivarrebbe al 3,7% del PIL mondiale 2008, un grande onere in tempi di crisi economica.

Tirando le somme, lo Scenario 450 oscilla tra previsioni fantascientifiche e scenari da film dell’orrore. Ma riuscirebbe poi a venire incontro ai desideri espansionistici del business imprenditoriale? Quanto sarebbe il tasso annuo di crescita del PIL con un aumento energetico dell’1,4%? Non è facile dare una risposta precisa, tuttavia si possono ipotizzare alcune stime elaborando i dati del IEA Statistics – CO2 emissions from fuel combustion 2010.
Tra il 2000 e il 2008, il PIL mondiale è aumentato del 3,2% annuo mentre il consumo energetico del 2,7% annuo: se quest’ultimo venisse ridotto all’1,4% come previsto nello Scenario 450, mantenendo anche per il 2011-2020 la medesima intensità energetica si avrebbe una crescita dell’1,6% di per sé non particolarmente esaltante (Confindustria definiva nel 2010 l’Italia ‘malata di poca crescita’ perché stentava ad arrivare al 2%) Tuttavia su questo misero risultato grava come un macigno la necessità di contenere le emissioni di CO2, che per lo Scenario 450 dovrebbero attestarsi a 31,9 Gt (giga-tonnellate, miliardi di tonnellate); cioè ‘solo’ 3,1 Gt più del 2009, mentre nel 2000-2008 l’aumento è stato di 8,4 Gt. L’efficienza tecnologica (il rapporto CO2/PIL) dovrebbe fare un balzo in avanti del 20% in pochi anni, e ciò sembra difficilmente fattibile considerando la preponderanza ancora assegnata alle fonti fossili.
Per questi livelli modesti di crescita, l’umanità dovrebbe spingersi fino ai limiti teorici di inquinamento, nella speranza che le teorie dei climatologi reggano alla dimostrazione pratica, e imbarcarsi in programmi energetici tanto ambiziosi quanto sconclusionati sul piano politico e sociale. L’assurdità è tale che neppure la IEA sembra credere più di tanto alle sue stesse proposte (pag. 239 del WEO 2011):

“Ogni anno bisognerebbe costruire circa 27 GW di reattori nucleari, che necessitano un’accettazione diffusa di questa tecnologia. Altre tecnologie che sono state prese in esame, come le gradi dighe e i biocarburanti, incontrano resistenze da parte dell’opinione pubblica a causa delle potenziali conseguenze ambientali e delle problematiche legate alla sostenibilità… Dal momento che implementare lo Scenario 450 sarebbe già estremamente impegnativo, è assai difficile pensare di sviluppare la tecnologia ancora più rapidamente, modificando sia i comportamenti individuali che la pianificazione urbana”.

Alla fine anche la IEA sembra in qualche modo arrivare alla conclusione corretta: cambiare i nostri comportamenti è più importante che fantasticare di mirabolanti assetti energetici.

2 Commenti

  1. Caro Igor,

    da te sempre articoli interessanti (e molto ben documentati).

    A coronamento voglio sollecitare una riflessione sulla FAMOSA definizione di Sviluppo sostenibile: “forma di sviluppo che permette di soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la capacità delle generazione future di soddisfare i loro”.

    Sicuro che si tratti di una definizione di sviluppo? Sviluppo è piantare un ulivo oggi sapendo che solo i propri figli godranno dei sui frutti, cioè fare oggi qualcosa che faccia stare meglio chi verrà domani. Questo concetto non mi pare che ci sia nel definizione di SS, che invece sostanzialmente dice “fare quel che ci pare, purchè questo non danneggi chi verrà dopo di noi”.

    Sei d’accordo con questa mia lettura?

    Grazie per l’attenzione, Nello

  2. Concordo al mille per mille. Un principio di precauzione, per quanto mosso da nobili intenti – e sono ancora abbastanza ‘ideologico’ da dubitare che un organismo come il World Business Action For Sustainable Development, con detro Texaco, Suez o Dupont ne abbia – non coincide con una politica volta alla conservazione della biosfera e della vita civilizzata sulla terra. Tra l’altro, ho sempre trovato ridicolo fare supposizioni sui bisogni delle generazioni future: a parte i bisogni primari imprescindibili, cosa ne possiamo sapere? Potrebbero anche decidere di convertirsi tutti all’anarco-primitivismo! A parte gli scherzi, penso che si verrebbe a una maggiore chiarezza se si adottasse l’espressine ‘durevole’ al posto di ‘sostenibile’, in modo che si capisca chiaramente su quello che deve ‘durare’ nel tempo è l’idea industriale di sviluppo e che la sostenibilità c’entra ben poco.

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