La mega-macchina, ovvero il nemico

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Lewis Mumford è stato un intellettuale del Novecento brillante ed eterodosso, versato in più campi, dalla storia all’urbanistica, dalla filosofia della scienza alla sociologia. La sua riflessione sugli effetti sociali delle tecnologie è stata particolarmente lucida e in questa sede vorrei approfondire una delle sue teorie più significative, quella della mega-macchina sociale, che nel libro Finanzcapitalismo viene così efficacemente sintetizzata da Luciano Gallino:

“Mega-macchine sociali: cosí sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss… Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona”

Mentre scrivo ho un’improvvisa folgorazione. D’un tratto, mi sembra di capire la ragione del fallimento sostanziale della Sinistra, in tutte le sue varianti – dalla socialdemocrazia al comunismo. La Sinistra, relegando ogni criticità al conflitto capitale-lavoro, non solo non ha mai intaccato la mega-macchina ma ha pensato che il suo sviluppo fosse un elemento fondamentale per il progresso umano, basti pensare allo ‘sviluppo delle forze produttive’ di Marx e alla venerazione per l’industrialismo che ha raggiunto l’apice con la tecno-scienza sovietica. La Sinistra ha pensato che il suo compito fosse di rendere più agevole il rapporto del cittadino con la mega-macchina – controllo dei mezzi di produzione, buon salario, ambiente di lavoro dignitoso, assistenza sociale – non di emanciparlo da essa. E’ stato il socialismo orgogliosamente ‘scientifico’ a bollare come ‘utopisti’ tutti i tentativi di creare un rapporto armonico uomo-macchina.
Come capita ogni volta in cui credo di aver avuto un’intuizione geniale, nel giro di qualche minuto mi accorgo di aver scoperto l’acqua calda. Nella mente mi immagino Illich, Latouche, Gorz, Boochkin e altri pensatori applaudirmi ironicamente per le ore spese sui loro libri senza capirci troppo, evidentemente. Come diciamo noi professori di scuola, “il ragazzo è un po’ lento ma apprende”, ironizzando sugli studenti che si avvicinano all’agognata meta del diploma ripetendo alcuni anni.
In particolare, devo aver letto superficialmente questo paragrafo de La convivialità di Ivan Illich:

“Attualmente i criteri istituzionali dell’azione umana sono l’opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l’ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell’interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente… L’interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d’immaginazione, d’amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient’altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.
Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l’escalation della produzione e l’aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l’insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l’attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l’appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un’equa ripartizione dell’abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto… Fino a quando condividerà l’illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell’interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all’interesse generale, è un fatto secondario. Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo accresce l’uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l’impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro”

Non credo sia un caso che Serge Latouche abbia scritto un libro specificatamente ispirato all’idea di Mumford, intitolato per l’appunto La Megamacchina, prima di addentrarsi nello specifico a trattare della decrescita. Secondo l’analisi dell’economista francese, i problemi principali posti dalla mega-macchina attuale sono i seguenti:

– L’emancipazione e lo scatenamento della tecnica e dell’economia: lo sviluppo tecnologico proverbialmente ‘non si può fermare’, diventa un fine a se stesso a prescindere dalle esigenze reali e i suoi effetti positivi o negativi (ad esempio la nube radioattiva di Chernobyl) non conoscono frontiere. Le tecnologie hanno consentito anche l’annullamento delle distanze, la creazione di quello che Marshall McLuhan chiamava ‘villaggio globale’, che comporta la scomparsa dello spazio politico e una regressione nel privato che può sfociare in violente rivendicazioni identitarie (lo sviluppo delle reti di comunicazione globale è stato accompagnato dal parallelo riemergere dei nazionalismi in Europa e del fondamentalismo religioso in Asia e Africa). Anche l’economia si è transnazionalizzata di pari passo con lo sviluppo delle reti di comunicazione, sottraendosi al controllo degli Stati-Nazione e invadendo ogni aspetto della vita umana mercificandola;
– La macchinizzazione del sociale: il cittadino si trasforma in utente della mega-macchina, che ne plagia desideri e aspirazioni. La perdita di identità e la transnazionalizzazione dei processi economici e politici inficiano i legami sociali, mentre l’efficienza diventa l’unico valore di riferimento a cui piegare l’esistenza umana;
– Il vicolo cieco: tale efficienza è autoreferenziale e punta all’accumulazione illimitata del capitale e alla crescita infinita, concetti che contrastano con il carattere limitato della Terra e delle sue risorse;
– L’ingiustizia: violando ogni basilare legge della fisica, non solo la promessa di prosperità e uguaglianza per tutti della mega-macchina diventa una clamorosa menzogna ma addirittura si incrementano infelicità e disuguaglianze, creando una società sempre più polarizzata. In Italia, che pure è una delle nazioni occidentali dove il problema è meno evidente, il 10% delle persone più ricche possiede il 40% della ricchezza del paese mentre il 10% più povero solo lo 0,3%;
– L’uniformazione: la mega-macchina ammette solo lo stile di vita occidentale e aborre il multiculturalismo. Anche gli apologeti del neoliberismo, come Frances Fukuyama, ammettono questa circostanza presentandola però come un fatto positivo: “La tecnologia rende possibile un’illimitata accumulazione di ricchezza e quindi la soddisfazione di una serie di desideri sempre più vasta. Questo processo assicura una crescente omogeneizzazione di tutte le società umane indipendentemente dalle loro origini storiche e dalle loro eredità culturali. Tutti i paesi in cui è in atto un processo di modernizzazione sono destinati ad assomigliarsi sempre di più: essi dovranno urbanizzarsi, sostituire le forme tradizionali di organizzazione sociale come la tribù, la setta e la famiglia con altre forme economicamente razionali basate sulla funzionalità e l’efficienza, e infine dovranno provvedere all’istruzione dei loro cittadini”;
– Lo sradicamento: le nazioni nate nell’era della globalizzazione, laddove lo stile di vita occidentale fatica a imporsi – come nell’Europa orientale – non traggono legittimità da una società civile o su di un moderno concetto di cittadinanza, bensì da un sentimento neo-tribale che pretende di ergersi a ‘popolo’ e ‘Stato’;
– La spoliazione produttiva: il lavoratore tende a diventare un ingranaggio della mega-macchina, in forme più raffinate ma non meno alienanti e soggioganti di quelle proposte dai modelli fordisti-tayloristi. I servizi telematici come la posta elettronica, ad esempio, vengono spesso sfruttati per allargare a 24 ore su 24 la reperibilità del lavoratore superando i limiti fisici dell’azienda e gli orari di lavoro canonici;
– L’assenza del desiderio di cittadinanza: il cittadino contemporaneo, dopo una dura giornata di lavoro, si trova spesso di fronte a problematiche di carattere familiare o burocratico-amministrativo, che lo spingono a ricercare rifugio nell’entertainment anziché a interessarsi alla comunità e a impegnarsi politicamente e così facendo tende a demandare importanti decisioni politiche agli esperti.

Ragionando su questi aspetti, possiamo capire appieno in che cosa debba consistere il processo della decrescita, che quindi va ben al di là di una coibentazione migliore degli edifici o di dispositivi elettrici più efficienti: il superamento reale del capitalismo e dei suoi disastri è possibile solo destrutturando il gigantismo della mega-macchina sui cui si regge, rallentando il suo ritmo esasperato di evoluzione e riportandola a un livello accettabile per le esigenze umane e ambientali, ricostruendo il tessuto sociale e immaginando nuove forme di convivenza tra uomo e natura.
Volendo ripescare il vecchio armamentario della Sinistra, chi potrebbe candidarsi come soggetto rivoluzionario per eccellenza contro la mega-macchina? La classe lavoratrice, l’antagonista tradizionale del capitalismo, si direbbe poco indicata. Troppo integrata nel sistema, come aveva già notato Marcuse, può incorrere facilmente nella sociolatria, ossia l’atteggiamento di chi ritiene che il bene della macchina industriale coincida sostanzialmente con il proprio (il recente caso dell’ILVA e la rivendicazione all’insegna del ‘tumore in cambio di lavoro’ è un esempio estremo). Nel libro Capitalismo, socialismo, ecologia, Andrè Gorz spiega molto bene come il nuovo campo di lotta sia molto più vasto:

“Il punto importante è che ormai tanto la critica della razionalità capitalistica quanto la sensibilità socialista dei salariati nei settori produttivi più evoluti non risultano dalla vita di lavoro e dalla coscienza di classe, ma piuttosto dalla scoperta, fatta in veste di cittadini, genitori, consumatori, abitanti di un quartiere o di una città, che lo sviluppo capitalistico li espropria dal loro ambiente di vita, sia sociale che naturale. Non è nella competenza professionale né nell’identificazione con il lavoro che scaturiscono le motivazioni per resistere contro questa spoliazione, ma nella vita e nell’esperienza extra-professionale.
…Il conflitto principale non oppone più capitale e lavoro, ma i grandi apparati scientifici, tecnici, burocratici (che in ricordo di Max Weber e di Lewis Mumford ho chiamato la mega-macchina burocratica-industriale) alle popolazioni in conflitto con la tecnicizzazione dell’ambiente, la professionalizzazione e l’industrializzazione delle decisioni e degli atti della vita quotidiana, gli esperti patentati che vi tolgono la possibilità di determinare da soli i vostri bisogni, desideri, o il modo di gestire la salute e, più in generale, la vostra vita”.

Da tutto ciò si possono trarre da alcune premesse fondamentali, per poi svilupparle ulteriormente:

– ridurre il peso delle attività umane a una dimensione compatibile con l’ambiente;
– ridurre la quota oraria dedicata al lavoro;
– sviluppare concezioni scientifiche ed economiche slegate dalle tecnocrazia;
– combattere le tendenze globalizzatrici concentrando l’attenzione sulla sfera locale, quella dove la società civile può intervenire con maggior risultato;
– permettere al cittadino di riappropriarsi della propria autonomia;
– introdurre un controllo sociale sulla tecnologia, in modo che persegua fini realmente utili per la collettività, la preservazione dell’ambiente e non per il capitale;
– riappropriarsi della cultura per ricostruire un sentimento democratico di cittadinanza, dove il rifiuto delle tirannie globalizzate e la riaffermazione del Sé trovino fondamento sull’aspirazione all’uguaglianza e alla lotta alla discriminazione, non su di una cieca rivendicazione identitaria;
– ricostruire il tessuto sociale, pretendere una ridistribuzione sostenibile della ricchezza e combattere i modelli culturali imposti dalla società della crescita.

Probabilmente Latouche intendeva qualcosa del genere quando parlava di “disfare lo sviluppo per rifare il mondo”.

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

5 Commenti

  1. Complimenti per l’articolo Igor,

    l’ho letto a pezzi (in quanto impegnato nel portare avanti la mega macchina 🙂 … mi è sembrato molto ben costruito e interessante!

    Un saluto,
    Ivan

  2. Ma il capitalismo è veramente superato? Oppure le stesse riflessioni che sopra sono state esposte, rientrano nell’ evoluzione del capitalismo?
    La decrescita può essere vista in un’ ottica capitalistica come un elemento di riproduzione del capitale. In sostanza la decrescita diminuisce la concorrenza e quindi favorisce la riproduzione del capitale.
    Il problema del capitalismo globalizzato, e ne stiamo vedendo gli effetti oggi, è la difficoltà che incontra nel rigenerarsi, perchè ha una concorrenza troppo elevata. Ad esempio, oggi compro una macchina che fa 20 buste al minuto, ma domani in Cina ne esce una che ne fa 30, come potrò ripagarmi la macchina che ho appena comprato? In questo processo, quanto capitale è stato bruciato? E se tra una settimana ne esce una che ne fa 40?
    Il capitale è così costretto a spostarsi sempre, dalla macchina da 20 a quella da 30 e poi a quella da 40, ma nel corso dei suoi spostamenti è aumentato, è rimasto uguale o è diminuito?

    E’ possibile leggere la realtà odierna come una lotta tra due mega macchine, ossia da una parte il capitalismo e dall’ altra gli Stati?

    Perchè quando chiediamo di lavorare di meno siamo sicuri di doverlo chiedere alla megamacchina capitalistica e non alla mega macchina statale?
    I bisogni sono artificiosamente creati sia dal primo che dal secondo.
    I nostri bambini hanno decine di giocattoli inutili, ma è anche vero che hanno decine di bisogni inutili, come il controllo pediatrico perenne, l’ educazione centralizzata etcc…

    • Ciao Alessandro,

      Mi chiamo Naressi Graziano e vorrei rispondere alle tue riflessioni su decrescita e capitalismo. Sono un piccolo imprenditore che lavora nel settore delle energie rinnovabili e faccio parte della RES FVG.

      Dal mio punto di vista la decrescita mette in discussione l’attuale modello capitalistico e propone la cultura di una nuova ed altra economia, che si pone il problema di come dare il “giusto valore” alle persone, all’ambiente, alla solidarietà tra paesi più e meno fortunati. Tutto questo può avere senso economico e sono ormai innumerevoli le esperienze che lo dimostrano: il commercio equo e solidale, la finanza etica, il turismo responsabile, l’agricoltura biologica. La collaborazione solidale significa lavorare insieme per promuovere rapporti sociali ed economici in cui il ben vivere di ciascuno è condizione del ben vivere di tutti.
      Il vivere bene implica uno stile di vita sobria ed in qualche modo una condivisione dei beni comuni, attraverso la rete economica della collaborazione solidale per facilitare la ridistribuzione della ricchezza coniugando insieme la giustizia sociale con le libertà individuali.

      L’economia solidale consente lo spostamento dalla domanda di produzione di beni tradizionali, ad alto impatto ambientale, alla domanda di produzione di beni relazionali, che invece comporta il consumo di quantità molto modeste di materia ed energia. Le relazioni di reciprocità, su cui si fonda l’economia solidale, necessitano infatti di un supporto energetico e materiale molto modesto; tuttavia permettono di generare un alto grado di benessere non solo in chi “consuma” i beni, ma anche in chi li “produce”. Inoltre lo stretto legame col territorio ed il carattere locale delle attività che operano nell’ambito dell’economia solidale, permettono di controllare l’intero ciclo di vita del “prodotto” e, conseguentemente, di avviare le progettazione di un’economia ecologicamente sostenibile. In conclusione, l’espansione dell’economia solidale, attraverso la produzione di beni relazionali, non solo crea valore economico laddove è possibile ridurre al minimo la degradazione dell’energia e della materia (sostenibilità ecologica), ma costituisce anche una potente via per la realizzazione di un’economia giusta, riequilibrando il processo di concentrazione della ricchezza a cui stiamo assistendo (sostenibilità sociale).
      L’unica via di uscita da questa crisi è capovolgere l’attuale sistema economico, fondando una economia che rispetti le comunità locali ed i beni comuni con una loro gestione partecipata, dove i cittadini sono protagonisti, consapevoli che i loro comportamenti quotidiani, i loro stili di vita possono promuovere una nuova economia che si regge sulla collaborazione solidale.
      L’alternativa a questa globalizzazione parte da qui: da un progetto politico che valorizzi
      le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile,
      di rifiuto del mercato unico. C’è bisogno di un’economia solidale, un’economia davvero al servizio dell’uomo, basata su principi e criteri diversi, con una filosofia diversa e obiettivi diversi, sostenibile sotto ogni punto di vista, sociale, ambientale, dei diritti e del lavoro da dove partire per costruire un altro sistema, stavolta sostenibile, equo e solidale. Occorre ripartire dalle singole azioni quotidiane di ciascuno di noi, che alla fine sono quelle che, moltiplicate all’infinito, consentono al sistema non sostenibile di perpetuarsi. Un cambiamento, dunque, da costruire dal basso, acquisendo la consapevolezza che è possibile ma che dipende da noi e che solo così è possibile influenzare le decisioni che vengono prese dall’alto.
      La Decrescita rappresenta una transizione verso una società diversa, una società fondata sui beni comuni,sulla relazione e sulla reciprocità anziché sul mercato e i personalismi. Oggi sappiamo che consumiamo troppo, mangiamo troppo, buttiamo troppo (e i nostri rifiuti ce lo dimostrano). Soprattutto viviamo nella convinzione che sia possibile una crescita infinita in un luogo, quale è il nostro pianeta, finito, ignorando limiti ed entropia.
      La via per uscire dalla crisi è MODIFICARE IL PROPRIO STILE DI VITA, riappropriandosi del proprio Saper Fare, re-imparando a cucinare, a riparare, a costruire. Saper Fare significa saper risparmiare ma anche saper vivere. Un individuo incapace di costruire, riparare, cucinare, è un individuo dipendente in tutto e per tutto, schiavo delle mode e, peggio ancora, delle crisi di speculazione finanziaria.
      Il Saper Fare si basa sul recupero di alcune preziose capacità pratiche andate perdute negli ultimi decenni, da quando la società occidentale ha abbracciato il modello di sviluppo consumistico, ad altissimo impatto sull’ambiente, basato sul frenetico consumo di prodotti usa e getta, concepiti per durare il meno possibile ed essere rapidamente sostituiti, trasformandosi così in rifiuti costosi da smaltire, gravati da imballaggi ingombranti e altamente inquinanti. Il Saper Fare è una sorta di rivoluzione culturale, che presenta una quantità incalcolabile di vantaggi: permette di recuperare capacità e utilità perdute, di accedere a beni primari limitando acquisti e spostamenti, di inquinare meno e risparmiare molto, e di sperimentare una nuova dimensione entro la quale rivalutare il tempo e la soddisfazione del lavoro ben fatto, da condividere in modo solidale. Zero imballaggi, meno trasporti, niente emissioni. Se migliaia, milioni di singoli adotteranno le pratiche del Saper Fare, inaugurando nuovi stili di vita basati sul recupero della capacità di auto-produzione di beni e quindi riducendo la produzione di emissioni e rifiuti, l’impatto di questa pratica diverrà in breve tempo molto significativo anche su scala globale.
      Recuperare alcune delle antiche capacità perdute e praticarle si rivelerà una sorpresa: il Saper Fare non è un’attività gravosa ma, al contrario, può essere vissuto con gioia e passione. Il Saper Fare libera l’individuo da molte delle sue dipendenze, regalandogli la consapevolezza di poter ridiventare autonomo, non più vincolato al supermercato, e anche creativo.
      Un’altra economia è possibile se scegliamo uno sviluppo locale autosostenibile con
      tecnologie appropriate all’ambiente naturale.
      In generale con tecnologie appropriate si intendono quelle che rispondono ai bisogni fondamentali dell’umanità e che quindi hanno la capacità di:
      . migliorare socialmente le condizioni di vita delle popolazioni;
      . utilizzare in maniera saggia le risorse del pianeta;
      . rispettare gli equilibri e le leggi della natura;
      . permettere un maggiore decentramento del governo della cosa pubblica fra gli individui della comunità.

      Ho mandato un mio contributo per il dibattito in corso a Venezia che affronta un problema importante. La produzione dei beni, la tecnologia e il saper fare. Sono on oltre 30 anni di esperienza e credo ci siano molte persone come me che hanno le competenze tecniche per progettare e costruire i prodotti di cui abbiamo bisogno. Si tratta di riappropriarci del nostro tempo, della nostra vita. Possiamo creare milioni di posti di lavoro, abbassare notevolmente i costi dei prodotti e fare a meno delle multinazionali, degli ipermercati, della pubblicità e di tutti gli intermediari che oggi sono funzionali a questo consumismo usa e getta.
      Le alternative a questo sistema ci sono, cominciamo a parlarne e a fare proposte concrete. Cominciamo a costruire una rete mondiale per una nuova economia solidale.
      Nell’era digitale, nella società della conoscenza, il vero capitale sono le persone, le loro qualità, la loro esperienza, impegno, idee e modalità relazionali. Attraverso la condivisione del dono, vogliamo scommettere sullo sviluppo e sulla diffusione di una cultura della reciprocità.

      Costruiamo una società nuova fondata sulla riappropriazione dei saperi e delle conoscenze che devono essere considerate patrimonio dell’umanità e a disposizione di tutti gratuitamente. UNITI SI PUO’!

  3. Finalmente un attimo di tempo per rispondere ai commenti! Allora, ad Alessandro vorrei dire che un capitalismo ‘stazionario’ (come quello proposto da Daly) è una contraddizione di termini, la ‘distruzione creatrice’ è una componente fondamentale del capitalismo. Diverso invece è riconoscere che il mercato non è riducibile al solo capitalismo (e infatti il mercato è preesistente al capitalismo): quello a cui dobbiamo puntare non è all’abolizione del mercato. ma evitare una società ‘di mercato’ dove questo sia l’elemento centrale che detta le politica.
    Quanto al dualismo stato-economia di mercato, come vedi non l’ho presentato per il semplice motivo che ritengo le due entità decisamente complementari: è stato un grave errore di Marx (notato subito dagli anarchici) aver ridotto lo Stato a semplice sovrastruttura dei rapporti di produzione, quando invece storicamente è stato lo Stato, in diverse forme (New Deal, dirigismo fascista, socialdemocrazia post-bellica) a salvare il capitalismo dalle sue crisi cicliche. Quanto a Graziano, condivido assolutamente l’idea che alcune imprese ispirate ai principi della decrescita (e ci metterei anche quelle basate sulla cosiddetta blue economy di Gunther Pauli) possano rappresentare una svolta decisiva, a patto che superino i vecchi modelli di business, altrimenti si rischia solamente di riproporre una green economy solo un po più cool.

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