La trappola della crescita (3)

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Il presente testo costituisce parte integrante di un saggio in corso di stesura. Le restanti parti verranno pubblicate su DFSN mano a mano che verranno completate. Alla luce di sviluppi imprevisti e/o dei vostri commenti, le parti precedentemente pubblicate potranno venire in seguito modificate e migliorate. Potete leggere il capitolo precedente del saggio qui.

Cap. 3. Dal re al popolo: le conseguenze delle politiche finanziarie e monetarie sull’economia reale

Nel precedente capitolo abbiamo tentato di delineare un quadro – necessariamente approssimativo – delle macro-funzioni del sistema bancario che influenzano più direttamente l’economia reale.

In questo capitolo analizzeremo gli effetti più importanti di tali macro-funzioni, svelando la loro connessione con alcuni fra i più gravi problemi che affliggono attualmente le economie occidentali e non solo. Ancora una volta, non ci addentreremo troppo nel dettaglio, ma procederemo con un’analisi generale di carattere strutturale [12].

Moltiplicazione e distribuzione

Innanzitutto va ricordato che l’espansione monetaria è strettamente connessa all’aumento dei prezzi dei beni di consumo e strumentali (questi ultimi sono naturalmente influenzati da numerosi altri fattori, che qui tuttavia, per esigenze di sintesi, non considereremo): dati “n” beni disponibili sul mercato, un aumento della massa monetaria del 10% (per fare un esempio come un altro) porterà, ceteris paribus e dopo l’intervallo di tempo necessario all’adeguamento dei listini, ad un aumento dei prezzi del 10%.

Quando si parla di immissioni di liquidità da parte delle banche centrali (considerando con ciò il denaro “virtuale” generato dal sistema interbancario attraverso il meccanismo del moltiplicatore monetario), nei manuali di economia si fa spesso riferimento all’analogia dell’elicottero che, dall’alto, getta indiscriminatamente le banconote a terra, così che tutti quanti ne possano beneficiare in egual misura: si vorrebbe far passare l’idea, in altre parole, che un aumento della massa monetaria non avvantaggi né svantaggi nessuno.

Sfortunatamente la verità è un’altra. I primi a ricevere il denaro “fresco” (talvolta manifestamente selezionati attraverso politiche pubbliche di aiuto a un determinato settore, come quello automobilistico, ovvero attraverso crediti concessi dalle banche a imprese o enti pubblici) beneficiano infatti di un vantaggio monetario relativo, nel senso che acquisiscono la facoltà di investire tale denaro quando ancora i prezzi non sono stati adeguati alla nuova entità della massa monetaria (in altre parole, quando ancora non hanno incorporato in sé la svalutazione del denaro generata dalla nuova immissione di liquidità nel mercato). Via via che il denaro di nuova immissione passa di mano i benefici relativi si riducono sempre più, fino a che, adeguati i prezzi alla nuova situazione, non vi sono più vantaggi relativi per nessuno.

Questo non significa che si tratti di un gioco sostanzialmente a somma positiva; al contrario, gran parte dell’onere dell’incremento dei prezzi dovrà essere sostenuto dai lavoratori salariati (ovvero la grande maggioranza della popolazione) attraverso la perdita di valore reale degli stipendi (il cui adattamento all’inflazione, se mai avviene, è sempre più lento dell’adeguamento dei listini alla nuova entità della massa monetaria).

Naturalmente non si intende qui trascurare il fatto che sul breve termine politiche espansive da parte delle banche centrali possano avere effetti di stimolo sugli investimenti e dunque indirettamente generare occupazione. Il problema, come vedremo nel prossimo paragrafo, è che gli effetti di medio e lungo termine che tali politiche innescano sono non di rado ben più gravi dei benefici generati sul breve periodo, facendo dell’interventismo delle banche centrali la causa principale delle crisi cicliche che affliggono le nostre economie.

Le conseguenze dell’interventismo

Naturalmente se le banche centrali conducessero “alla cieca” il gioco dell’espansione creditizia (attraverso interventi di immissione e stimolo) nel contesto di un’economia stagnante, l’inflazione a due cifre che ne sarebbe conseguenza genererebbe probabilmente grandi proteste sociali, rischiando di portare l’economia dalla recessione al collasso. Perciò le banche centrali, forti dell’appoggio di gran parte della politica, spingono al tempo stesso l’acceleratore sulla crescita e sull’inflazione, cercando continuamente un equilibrio “in corsa” che impedisca alla macchina economica di schiantarsi contro il muro dell’iperinflazione e della recessione.

Così facendo esse tentano inoltre di contrastare due dei problemi centrali, già accennati nel capitolo 1, delle economie contemporanee: gli effetti nefasti sui tassi di occupazione del continuo aumento della produttività del lavoro e i sempre più imponenti debiti pubblici.

Nel contesto di un’economia in recessione, infatti, i primi rischierebbero di risolversi – come già accennato – in un circolo vizioso di disoccupazione e ulteriore inasprimento della fase recessiva (sebbene almeno teoricamente, qualora la recessione fosse molto estesa, la stessa innovazione tecnologica potrebbe subire un rallentamento limitando provvisoriamente l’aumento della produttività del lavoro), e i secondi, accrescendo il loro peso in termini di rapporto debito/PIL, tenderebbero a crescere ulteriormente, divenendo ancora più difficilmente intaccabili.

Il gioco, tuttavia, anche quando è ben condotto e garantisce sul breve periodo la prosperità economica sperata, produce cionondimeno effetti latenti che, sul lungo periodo, tendono a condurre alla formazione di bolle economico-creditizie che, se lasciate esplodere, possono tramutarsi in crisi finanziarie ed economiche.

Ma vediamo di analizzare meglio alcuni di questi effetti latenti, osservando i differenti esiti di una riduzione del costo del denaro a seguito:

a) Di un aumento dei risparmi aggregati.

b) Di un intervento di stimolo da parte della banca centrale.

Per farlo ricorreremo a due esempi fittizi [13], al fine di non complicare troppo il quadro di analisi.

Nel caso [a] ipotizziamo che, in risposta ad una fase economica percepita come recessiva, i consumatori decidano di ridurre le proprie preferenze temporali [14], portando il reddito totale destinato ai consumi dal 90% al 60%. Di conseguenza il tasso di risparmio aggregato passerebbe dal 10% al 40% [15].

Immaginando di trovarci in una situazione di libero mercato, avremmo dunque sette conseguenze fondamentali:

  1. A seguito della contrazione della domanda, la vendita di beni di consumo diminuisce.
  2. I profitti delle imprese che nella filiera produttiva si trovano più vicine al consumo si riducono, al contrario di quelli delle imprese che operano nelle tappe più lontane dai consumi.
  3. Gli imprenditori sono indotti a investire in attività quanto più possibile lontane dalla tappa della vendita al dettaglio. In altre parole diviene più profittevole investire nella realizzazione di beni strumentali. Le imprese più vicine al consumo si ridimensionano rispetto a quelle che producono tali beni, liberando lavoro che viene prontamente impiegato nell’industria a monte dei consumi.
  4. A causa di una maggiore offerta di risparmi, i tassi di interesse si abbassano, rendendo più convenienti gli investimenti.
  5. A seguito della contrazione della domanda aggregata, i prezzi dei beni di consumo scendono: di riflesso cresce il potere d’acquisto dei salari (effetto Ricardo).
  6. A valle dei consumi, si sostituiscono i lavoratori con i beni capitali (il cui costo è diminuito a seguito dell’abbassamento dei tassi d’interesse). Ulteriore trasferimento di forza lavoro a monte dei consumi e salari nominali stabili (a fronte di un aumento del loro valore reale). I beni strumentali acquisiscono maggior peso nell’economia.
  7. Alla fine del processo il reddito inizialmente destinato al consumo è in grado di acquistare una quantità maggiore di beni. La società è nel suo complesso più ricca di prima e la ricchezza più equamente distribuita. I risparmi reali non sono stati intaccati, e al tempo stesso hanno permesso di finanziare la creazione di un maggior numero di beni strumentali, attraverso i quali produrre un maggior numero di beni di consumo in seguito venduti ad un prezzo inferiore di quello iniziale.

Vediamo ora il caso [b], in cui l’abbassamento dei tassi di interesse non fa seguito ad una riduzione delle preferenze temporali, bensì ad un’iniezione di liquidità da parte della banca centrale.

In principio le conseguenze sarebbero le medesime: il mercato, infatti, non distingue se l’abbassamento del costo del denaro derivi da una maggiore propensione al risparmio o da una nuova emissione di mezzi fiduciari. Dunque gli imprenditori saranno anche in questa situazione portati a effettuare maggiori investimenti. In questo caso crescerebbe tuttavia il gap fra risparmi reali e investimenti: l’espansione della produzione non sarebbe infatti finanziata da risparmio reale bensì da denaro di nuova immissione.

Attraverso una serie di dinamiche, il mercato tenderebbe comunque a ricomporre tale gap. Vediamo in che modo:

  1. Aumenta la domanda del fattore lavoro che tuttavia, non essendo diminuiti i consumi, non si libera a valle. Di conseguenza aumentano i salari, ma il costo del denaro è ancora abbastanza basso da rendere gli investimenti vantaggiosi: si diffonde un’atmosfera di euforia.
  2. Iniziano a salire i prezzi dei beni di consumo. Infatti la domanda non diminuisce e i listini iniziano ad adeguarsi alla nuova massa monetaria. I salari reali ritornano ad essere vicini a quelli iniziali.
  3. Il basso costo del denaro e l’aumento dei prezzi crea l’illusione che ogni investimento possa essere altamente redditizio.
  4. I profitti sono più alti a valle dei consumi. Si guadagna di più investendo nei centri commerciali che nella produzione di beni strumentali.
  5. I salari reali iniziano a diminuire e al tempo stesso si inizia ad assumere più lavoratori, divenuti più economici dei beni capitali.
  6. Iniziano a esplicitarsi gli effetti nefasti dell’inflazione: i tassi di interesse salgono per compensare l’inflazione attesa, fino a superare anche i livelli iniziali pre-immissione. Impatto negativo sul valore dei beni capitali.
  7. Alla fine del processo crollano i consumi e nelle aziende a monte della filiera produttiva emergono perdite contabili dovute ai cattivi investimenti generati dall’euforia post-immissione (la produzione non trova più gli sbocchi sperati a valle dei consumi). Seguono possibili crisi finanziarie e recessioni. I prestiti delle banche diventano inesigibili. Il sistema bancario è a rischio insolvenza e si rende necessario un ulteriore intervento della banca centrale al fine di evitare il fallimento delle banche coinvolte.

Probabilmente a questo punto la banca centrale interverrà con misure di salvataggio definite anti-cicliche, ma in realtà volte a contenere i danni che gli interventi precedenti hanno provocato. Il risultato è che al fine di evitare una recessione provvisoria e di piccola entità (la quale costituisce il vero picco negativo naturale del ciclo economico e che in assenza di interventi sarebbe potenziale preludio di una successiva crescita più stabile) si interviene generando così nel medio-lungo periodo una serie di recessioni sempre più gravi, che per essere contrastate necessitano di interventi di stimolo sempre più grandi.

L’esito di ciò è una scelta fra gravi recessioni economiche ed ulteriori interventi della banca centrale. Ma è davvero possibile continuare a “drogare” il sistema all’infinito senza subirne le conseguenze?

Una crisi del libero mercato?

Abbiamo discusso di come gli interventi di stimolo delle banche centrali abbiano il fine precipuo di stimolare la crescita e di riflesso contenere l’inflazione che esse stesse in tal modo producono. Si è poi visto che tali stimoli generano effetti positivi ma provvisori sull’economia, ed effetti negativi sul medio-lungo periodo, a meno di ulteriori interventi da parte delle banche centrali. In molti casi le azioni distorsive delle banche centrali ottengono come risultato proprio l’acutizzarsi del terzo fattore che sarebbero in teoria deputate a controllare: la stabilità del ciclo economico.

Continuando ad alterare i tassi di interesse e a falsare gli indicatori dello stato di salute dell’economia che questi ultimi veicolano, esse inducono inesorabilmente gli attori economici a cattivi investimenti che, sul lungo periodo, non possono che sfociare in crisi finanziarie e/o recessioni. Come si è detto, gli interventi di stimolo a contrasto dei picchi recessivi del ciclo devono essere necessariamente sempre più grandi. Il perché è legato al fatto che la quota di reddito destinato ai consumi deve necessariamente aumentare sempre di più al fine di compensare l’espansione produttiva drogata dagli incentivi. A un certo punto il rapporto consumi/reddito supera una soglia critica e i consumi iniziano ad avvenire a debito. Contemporaneamente i cattivi investimenti generati dall’alterazione dei segnali di mercato divengono sempre più insostenibili e la bolla creditizia continua a espandersi per cercare di rimandare il più possibile la recessione. In tal modo la crisi economica che inevitabilmente seguirà al suo scoppio sarà tanto più profonda quanto più posticipata nel tempo. Vale la pena citare a questo proposito una frase di un vecchio economista, Ludwig Von Mises, tornata attuale in questi tempi di crisi:

Non c’è modo di evitare il collasso finale che segue un boom indotto dall’espansione creditizia. L’alternativa è solo se la crisi debba venire prima come risultato di un abbandono volontario di un’ulteriore espansione del credito, o dopo, quale catastrofe finale e totale del sistema monetario coinvolto.” (Human Action, 1949. Traduzione mia)

La grande crisi che stiamo vivendo è un esempio in questo senso emblematico. Mentre le accuse vengono di volta in volta scaricate sul governo statunitense (per negligenza), sulle banche commerciali e gli speculatori (per condotta immorale) o sul quadro normativo nazionale e internazionale (per mancanza di regolamentazioni stringenti), in pochi (a quanto ne so praticamente solo una manciata di economisti austriaci) hanno in questi anni puntato il dito sul principale responsabile: la Federal Reserve Bank. Fu infatti la politica di contenzione dei tassi di interesse operata dalla FED a consentire la continuazione della spirale speculativa che, come conseguenza, provocò il crescente indebitamento all’origine della bolla dei mutui subprime e quindi della crisi finanziaria globale. Ora si sente dire che il problema fu che gli speculatori ne approfittarono. E’ un po’ come offrire a un bambino tonnellate di dolciumi per poi condannarlo per il fatto di essere diventato obeso… qualcuno dovrebbe iniziare ad indagare sui genitori.

Ma non solo: oltre a identificare le cause dell’attuale crisi economico-finanziaria con la condotta dei banchieri delle banche private, si ripone ogni speranza di salvezza proprio nei banchieri delle banche centrali che l’hanno in primo luogo generata: è un po’ come accusare i soldati semplici di aver dato inizio alla guerra per poi affidare ai generali la stipulazione dell’armistizio!

In questo caso, come in altri meno gravi che l’hanno preceduto, i primi sintomi della malattia si sono mostrati con largo anticipo, e possono essere fatti risalire almeno agli anni ’90 quando, allo scoppio della bolla dei titoli tecnologici, non seguì una grande recessione solo “grazie” alla FED, che rispose riducendo i tassi di interesse. Gli eventi successivi all’11 settembre costituirono poi l’occasione propizia per la Banca Centrale statunitense di spingere ancor più sul pedale dell’espansione monetaria, stimolando nuovi cattivi investimenti che finirono per rimandare la crisi ancora di qualche anno.

In seguito il governatore della FED Alan Greenspan, quando nel 2004/2005 le acque si erano in parte calmate e la fase recessiva appariva momentaneamente sorpassata, alzò nuovamente i tassi. Questi continuarono a salire fino al 2007, quando la FED di Bernanke iniziò progressivamente ad abbassarli, portandoli alla fine del 2008 sulla soglia dello 0%. E fu proprio questa iniziativa a gonfiare la bolla dei mutui sub-prime, che infine scoppiò provocando la più grande crisi economico-finanziaria dai tempi della grande depressione del 29.

Note:

12. Per un’analisi più approfondita – da una prospettiva economica austriaca – di gran parte delle questioni trattate nel capitolo, si veda “Moneta, Credito bancario e Cicli economici”, Jesus Huerta de Soto, 2012. Per chi fosse interessato, il testo è disponibile per la consultazione in forma integrale e gratuita sul sito dell’autore, all’indirizzo www.jesushuertadesoto.com.

13. Si tratta di una mia rielaborazione della lezione numero 28 del libro “A scuola di economia”, Jesus Huerta de Soto, Francesco Carbone (a cura di).

14. Si tratta di un comportamento comune in situazioni di recessione. Pur essendo razionale su base individuale è, a detta di molti economisti, irrazionale a livello aggregato, in quanto foriero di un aggravamento della recessione. In realtà, per quanto sul breve periodo ciò possa essere vero, sul medio e lungo periodo un aumento del risparmio a spese dei consumi può avere effetti positivi per la ripresa dell’economia. Anche su questa questione, impossibile da approfondire in poche pagine, si veda in particolare “Moneta, Credito bancario e Cicli economici”, Jesus Huerta de Soto, 2012.

15. Va qui ricordata la fondamentale corrispondenza – dovuta in buona parte al regime di riserva frazionaria – tra risparmi e investimenti.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

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