Patrick Moore, l’ambientalista incompetente

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Poche cose sono utili per la crescita intellettuale quanto il confronto di idee: approcciando un punto di vista differente si scoprono sfaccettature prima ignorate di determinati fenomeni e, documentandosi nel tentativo di confutarlo, si arricchisce il proprio bagaglio di conoscenze. Da sostenitore della decrescita, personalmente ho trovato utile leggere opere molto ostili a essa, come La società post-crescita di Giampaolo Fabris o addirittura Contro la decrescita di Luca Simonetti. Per tali ragioni, quando in un mercatino dell’usato di Cervia mi sono ritrovato tra le mani L’ambientalista ragionevole. Confessioni di un fuoriuscito da Greenpeace di Patrick Moore, l’ho subito sfogliato con curiosità per poi acquistarlo al modico prezzo di un euro. Sapevo che vi erano narrate le vicissitudini che hanno convinto Moore ad abbandonare Greenpeace (di cui è stato per molti anni militante), ma tale polemica mi interessava molto meno delle opinioni ‘eterodosse’ dell’autore rispetto all’ecologia ‘ufficiale’, di cui mi erano già note prese di posizione in favore di energia atomica e OGM, nonché dichiarazioni ‘scettiche’ riguardo all’influenza antropica sul clima.

Per chi non lo conoscesse, Patrick Moore è considerato un’autorità in diversi prestigiosi consessi internazionali, basti pensare alla petizione per nominarlo ambasciatore di EXPO 2015, promossa tra gli altri da Associazione Luca Coscioni, World Food Prize, Chicco Testa, Marc Van Montagu (biologo molecolare fondatore dell’International Plant Biotechnology Outreach) e vari esponenti del mondo accademico. L’ambientalista ragionevole è diventato una sorta di Bibbia per tanti nemici giurati dell’ambientalismo “ascientifico e catastrofista” che ora, grazie a quest’opera, possono rivendicare ‘ragionevoli’ credenziali ecologiste continuando a sostenere il business as usual senza particolari abiure.

In tutta sincerità, mi attendevo un’analisi molto partigiana, ampiamente farcita di riduzionismo ma superficialmente onesta, al pari di molti testi ispirati alle teorie dello sviluppo sostenibile: ebbene, mai previsione è stata meno azzeccata. Infatti, quasi ogni pagina del libro pullula di imprecisioni e giudizi assai opinabili ma, paradossalmente, si tratta del problema minore. Decisamente peggiori sono i passi in cui traspaiono ignoranza, superficialità analitica e mancanza di rigore metodologico, tali per cui l’intera opera risulta l’esatto opposto di quanto promette la seconda di copertina, ossia un “approccio razionale fondato sulla ricerca scientifica”.

In queste sede sono riportati alcuni stralci dove tali criticità emergono prepotentemente. Lo scopo è dimostrare che ne L’ambientalista ragionevole si possono scovare qua e là opinioni sensate e condivisibili (cessare completamente la caccia a balene e delfini, abbandonare il’idea di bruciare carbone sequestrandone le emissioni nel sottosuolo, sviluppare la bioarchitettura, estirpare la povertà, evitare derive filosofiche pericolosamente misantrope), ma, contrariamente agli elogi dei tanti importanti sostenitori, i presupposti scientifici sono precari se non proprio imbarazzanti.

Nella mia analisi sono ricorso quando possibile a documentazioni risalenti a prima del 2010, anno in cui il libro è stato dato alle stampe (titolo originale inglese: Confessions of a Greenpeace Dropout: The Making of a Sensible Environmentalist), accessibili quindi all’autore durante la sua stesura. I numeri di pagina fanno riferimento all’edizione italiana pubblicata nel 2011 da Baldini Castoldi Dalai Editore.

W IL PROGRESSO SCIENTIFICO… OTTOCENTESCO

Nel mondo politicamente corretto del decostruzionismo postmoderno, è di moda far passare per oggettivi fatti che non esistono. Rifiuto questo supponente modo di agire…. I fatti sono fenomeni osservabili che si ripetono senza errore… nel regno della scienza oggettiva i fatti esistono, e a essi apparteniamo anche voi e noi. (pag. 35)

Moore sottolinea a più riprese di aver abbandonato Greenpeace perché essa avrebbe, a suo giudizio, intrapreso una strada avversa alla conoscenza scientifica, di cui lui si erge invece a paladino. Leggendo il libro è forte però la sensazione che, se fosse per l’autore, bisognerebbe rimanere ancorati a un approccio ottocentesco rigidamente empirista-induttivista, accantonando quindi le acquisizioni più avanzate, incentrate sullo studio dei sistemi complessi, l’elaborazione di modelli previsionali, la correlazione tra fenomeni, il riconoscimento e la mappatura di pattern ricorrenti. La banalizzazione di questa tematiche sconfina nel ridicolo:

I rapporti di causalità sono abbastanza diretti… I rapporti di correlazione sono molto più difficili da definire. Pur essendo una proprietà necessaria alla causalità, la correlazione non è sufficiente a dimostrare l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto. Per esempio, gli attacchi di squali e il consumo di gelato sono fortemente correlati. In sostanza, quando sono frequenti gli attacchi di squali, è maggiore il consumo di gelato. E, viceversa, quando gli attacchi di squali diminuiscono, diminuisce il consumo di gelato. Ne concluderemo che il consumo di gelato è causa degli attacchi di squali? (pag. 34)
Vi sono, naturalmente, avvenimenti futuri che possiamo prevedere in modo preciso: le maree, il sorgere del sole, il nostro successivo compleanno, il movimento dei pianeti… Ma la maggior parte degli eventi e delle circostanze future non la possiamo prevedere con sicurezza. E ciò semplicemente perché le variabili sono troppe, e fra di esse vi è quella caotica variabile che è la sorte… Ecco perché i bollettini meteorologici hanno le medesime probabilità di azzeccarci o di sbagliare…  Questo genere di previsioni non è molto dissimile dalla scommessa.
…Siamo costantemente bombardati di profezie che annunciano cambiamenti del clima, aumento del livello del mare, inondazioni, siccità, uragani, esodi di massa dovuti al clima, estinzioni di intere specie, tramonto delle civiltà, ecc. In gran parte, queste profezie si basano su simulazioni elettroniche molto complesse, che pretendono di rivelarci come sarà il clima (mediamente) fra cinquanta o cent’anni. Il problema è che, per quanto complesse siano, le simulazioni elettroniche non si avvicinano minimamente alla complessità del sistema climatico della Terra… Al primo anno di specializzazione in scienze all’università della Columbia Britannica, ebbi la fortuna di seguire un corso organizzato dalla facoltà di inglese che si prefiggeva di insegnare agli studenti di scienze di pensare criticamente… La miglior lezione che ne ricavai è questa: non prestar mai fede a un articolo che inizia con espressioni vaghe, tipo è possibile, può darsi, potrebbe essere. Se incontri una frase con è possibile, rileggila e aggiungici ma non è detto: “E’ possibile che la sostanza chimica X provochi il cancro, ma non è detto“.
Perciò, ogni volta che un politico o un attivista o un giornalista affermano qualcosa con la pretesa che sia un fatto (e questo vale anche per quello che scrivo io), date un’occhiata più da vicino. E’ davvero un fatto comprovato? O è una correlazione mascherata da rapporto di causalità? E’ una relazione causale comprovata, tipo, “la luce fa crescere le piante”? O è solo la profezia di qualcosa di cui non conosciamo la risposta? Far proprio questo approccio analitico vuol dire possedere la forza del pensiero critico, e ciò vi aiuterà a essere ambientalisti ragionevoli. (pag. 36-37)

Questi passi, che secondo Moore dovrebbero testimoniare la sua appassionata adesione al metodo scientifico e al pensiero critico, in realtà trasudano ingenuità e presunzione. Egli infatti pretende di studiare sistemi complessi auto-organizzati e operanti lontani dall’equilibrio, come clima ed ecosistemi, con i medesimi strumenti teorici della fisica classica e del meccanicismo riduzionista; tuttavia, nei sistemi complessi non si possono identificare ‘oggetti’ isolati, scomponibili e organizzati secondo rapporti deterministici di causa-effetto, bensì reti di relazioni incorporate a loro volta in reti più grandi, operanti tramite anelli di retroazione (feedback), cioé una struttura circolare di elementi connessi causalmente.

Relazione causale semplice

 

Relazione di feedback

In un sistema complesso, astrarre una singolo elemento dal contesto di relazioni in cui agisce è il modo migliore per scambiare lucciole per lanterne, e infatti (come vedremo) ne L’ambientalista ragionevole si ritrovano a bizzeffe affermazioni perentorie, in particolare sul clima, dovute a indebite generalizzazioni suggerite da incauti ragionamenti riduzionisti.

Ovviamente, essendo la natura una vastissima rete interconnessa di relazioni, il suo studio non potrà mai aderire ai rigidi criteri della certezza cartesiana, per cui non ha senso lamentarsi del carattere inevitabilmente probabilistico e approssimato (e per certi versi persino soggettivo) della scienza della complessità. Già all’inizio del XX secolo, gli studiosi della fisica sub-atomica (diversamente dagli insegnanti di inglese di Moore) avevano rinunciato alla corrispondenza precisa tra descrizioni e fenomeni descritti, ‘accontentandosi’ di formulare modelli e teorie approssimative, in uno sforzo continuo di elaborare rappresentazioni sempre più fedeli della realtà. Se propugniamo una concezione di scienza che bandisca sistematicamente dalle sue asserzioni l’espressione “ma non è detto”, allora dobbiamo rimanere fossilizzati a un più di un secolo fa.

Insomma, Greenpeace sarà anche nemica della scienza, ma che dire di un sedicente adepto che sembra aver ripudiato (tra gli altri) Boltzman, Heisenberg, Prigogine, Feynman?

Il fine della scienza non concerne le cose in sé, come pensano i dogmatici ingenui, ma le relazioni tra le cose, poiché al di fuori di questi rapporti non si può conoscere la realtà. (Henri Poincaré)
Non è la nostra ignoranza degli ingranaggi e delle complicazioni interne che fa apparire nella natura la probabilità, la quale sembra invece essere una caratteristica intrinseca di essa. Qualcuno ha espresso quest’idea così: “La natura stessa non sa da che parte andrà l’elettrone.” Una volta un filosofo ha detto: “È necessario per l’esistenza stessa della scienza che le stesse condizioni producano sempre gli stessi risultati”. Beh, non è vero. Anche quando le condizioni rimangono eguali, non si può predire dietro a quale foro si vedrà l’elettrone. Eppure la scienza, nonostante tutto, continua ad andare avanti, anche se le stesse condizioni non producono sempre gli stessi risultati. (Richard Feynman)

 IMPATTO UMANO E SOSTENIBILITA’

Impattare di più per impattare di meno

Nel corso degli anni, mi sono proposto di rendere l’espressione [“sviluppo sostenibile”, ndr] “operativa”, correggendone la definizione in questo modo: lo sviluppo sostenibile si prefigge di continuare a rifornire la nostra civiltà del cibo, dell’energia e dei materiali necessari, e possibilmente di incrementare le risorse dei paesi in via di sviluppo, impegnandosi al contempo a ridurre il nostro impatto negativo sull’ambiente attraverso cambiamenti tanto del comportamento (e delle abitudini) quanto delle tecnologie impiegate.
Molti attivisti, leggendo questa definizione, replicheranno qualcosa del genere: “Amico, non c’è via di scampo. Quanta più gente c’è e quante più risorse consumiamo, tanti più danni causeremo all’ambiente”. In effetti è convinzione comune che il nostro impatto ambientale sia misurabile sommando le risorse consumate. Questo è uno dei miti più pericolosi del moderno pensiero ambientalista. (pag. 26)

Appena lette queste parole, ero ansioso di scoprire quali confutazioni fossero proposte per indicatori di impatto ambientale consolidati come l’equazione I=PAT di Paul Erlich o l’impronta ecologica di Mathis Wackernagel e William Rees; esse invece non sono neppure menzionate e l’intero discorso si mantiene a un livello totalmente aleatorio, per cui diventa facile dimostrare tutto e il contrario di tutto, anche che “spegnere la luce quando usciamo da una stanza” e rimpiazzare le lampadine a incandescenza con quelle a fluorescenza (e poi con i LED) sia sufficiente per “un radicale ridimensionamento dell’impatto ambientale” (pag. 27).

La cosa curiosa è che, in altre sezioni del libro, viene adottata una forma mentis molto vicina a quella del “pericoloso mito del pensiero ambientalista moderno”. Ad esempio, a pag. 300, dopo aver discusso del ruolo svolto dall’elettricità prodotta con fonti fossili nel determinare le emissioni di CO2 pro capite di una nazione, scrive:

Naturalmente, c’è un fattore ancora più determinante: la ricchezza relativa dei paesi, comunemente misurata dal prodotto interno lordo (PIL).

Al di là degli slogan anti-ambientalisti, Moore a suo modo non si discosta dalla formula di Ehrlich solo che, evitando qualsiasi riferimento concreto all’entità del degrado ecologico e senza chiarire i reali margini di sviluppo della tecnologia, prova a persuadere che la soluzione del problema si limiti a invenzioni all’avanguardia e a qualche buona pratica domestica. In quest’ottica, non sarebbe stato molto confortante precisare che, contrariamente alle narrazioni dei pifferai dell’high tech, i miglioramenti di efficienza nello sfruttamento di energia e risorse sono stati consistenti nel periodo immediatamente successivo alla crisi petrolifera, senza poi mostrare particolari progressi a partire dagli anni Novanta.

Per quanto concerne l’impatto di consumi e popolazione, la questione sarebbe complessa da esporre nel dettaglio, ma un solo esempio chiarisce la portata della mistificazione di Moore.

Fonte: Global Footprint Network

All’uscita de L’ambientalista ragionevole, l’impronta ecologica della popolazione umana superava già la biocapacità del pianeta del 60%, un dato talmente grave e preoccupante che dimostra l’impossibilità di intervenire senza una seria riflessione su trend demografici e sfruttamento di risorse.

Tutti in città!

E’ possibile reperire in Rete svariate interviste in cui Moore polemizza con le correnti di pensiero ispirate a Thomas Malthus; curiosamente però, partendo dall’assioma secondo cui “la povertà è il peggiore problema ambientale” (pag. 23), alla fine ripropone le medesime considerazioni pseudo-malthusiane che riducono la crisi ecologica a un banale conteggio delle teste. Siccome “la ricchezza e l’urbanizzazione stabilizzeranno la popolazione umana” (pag. 499), nel capitolo ‘La popolazione siamo noi’ la ricetta proposta per contenere l’impatto demografico è “automatizzare l’agricoltura”, in modo da trasformare le genti povere e contadine, con tendenza ad alta natalità, in una popolazione urbana, agiata e scarsamente prolifica; una sorta di transizione demografica su scala globale, quindi. Il ragionamento fila se omettiamo ovviamente qualsiasi riferimento all’impatto generato dai consumi, per cui “uno vale uno” a prescindere dal tenore di vita. In realtà, l’impronta ecologica di uno statunitense medio, giusto per fare un esempio, equivale a quella di 8-9 indiani.

Confronto impronta ecologica pro capite tra nazioni (dati 2010)

Spesso i demografi, riflettendo in modo analogo a Moore, attribuiscono virtù ecologiche ai maxi agglomerati urbani, in relazione ai cali di natalità che si registrano e al risparmio di spazio dovuto all’alta densità di popolazione; Luca Pardi, in un articolo molto ben argomentato, ha confutato le concezioni errate di Massimo Livi Bacci riguardo i presunti progressi ambientali di Singapore, esponendo considerazioni generali valide per tutti i grandi centri abitati. Ovviamente, agli studiosi di demografia si può perdonare l’ignoranza di nozioni che, invece, un ecologo dovrebbe conoscere molto bene.

Sostenibilità strabica

Fanno sorridere le lamentele dell’autore sul fatto che la parola “sostenibilità” siasoggetta ad abusi e usi impropri” (pag. 27), dal momento che lui è il primo a deformarne il significato a piacimento. Avendo conseguito un PhD in ecologia, dovrebbe conoscere la definizione scientifica di sostenibilità ambientale, che si deve a Herman Daly e si basa su tre criteri fondanti:

• il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al
loro tasso di rigenerazione;
• l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve
superare la capacità di carico dell’ambiente stesso;
• lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.

Moore propone invece un’interpretazione personale, “sviluppo costante di abitudini e tecnologie migliori, cioé in armonia con l’ambiente” (pag.27), svincolata da  riferimenti precisi, tuttavia sufficiente per tranciare un giudizio molto negativo del fotovoltaico:

…il tentativo di presentare come verdi i pannelli solari solleva tanti dubbi. Come si può pretendere che sia verde una tecnologia che ha costi dieci volti superiori a quelli dell’elettricità tradizionale e che si basa totalmente su risorse non rinnovabili? (pag. 33)

A parte le plateali esagerazioni sui costi, a che cosa si riferisce quando parla di dipendenza totale da risorse non rinnovabili? Forse, al fatto che, oltre al silicio (uno degli elementi più diffusi sul pianeta) per migliorare il rendimento dei pannelli si impiegano metalli rari? O perché ci si avvale di fonti fossili per la fabbricazione?

L’autore non lo precisa. Si direbbe comunque che, vista la stroncatura del fotovoltaico, il criterio di sostenibilità dell’ecologo canadese sia molto rigido; peccato che, solo qualche pagina prima, esso si fosse dimostrato molto più elastico e tollerante per accogliere benevolmente l’agricoltura industriale:

L’agricoltura sostenibile è quella che preserva alcune aree naturali, protegge la fertilità del suolo e riduce al minimo il disboscamento, grazie a una tecnologia ad alto rendimento. (pag. 27)

Giudizio confermato alcuni capitoli più avanti:

…uno dei modi migliori per proteggere la natura è quello di impiegare le moderne pratiche agricole intensive, che comprendono l’uso di fertilizzanti, pesticidi, sistemi GPS e la genetica. (pag. 358)

Moore, con la sua ambigua concezione di sostenibilità, attua uno strano gioco delle tre carte dove, anziché affrontare questioni concrete, preferisce polemiche sterili con le pratiche biologiche cavillando su che cosa sia ‘naturale’ e ‘artificiale’; ecco il suo pensiero sull’impiego di fertilizzanti azotati:

Norman Borlaug è noto come padre della rivoluzione verde… Egli stima che i fertilizzanti azotati derivati dall’ammoniaca sintetica abbiano consentito di sopravvivere a quasi cinque miliardi di persone sui sette miliardi che siamo. In altre parole, senza l’azoto che raccogliamo dall’aria, l’azoto naturale dei suoli, del concime e del letame sarebbe sufficiente per nutrire soltanto due miliardi circa di persone… Vuol dire che non potremmo avere una popolazione di sette miliardi di persone se Fritz Haber non avesse ideato un sistema per produrre l’ammoniaca, e vuol dire che oggi dipendiamo da questo processo…
Mai al mondo capirò come si possa dire che l’azoto raccolto dall’atmosfera sia “artificiale” o “innaturale”. L’azoto nell’atmosfera è assolutamente naturale, non è in alcun modo artificiale. E’ vero che, grazie alla scienza, abbiamo appreso a sintetizzare l’ammoniaca dall’azoto dell’aria. Ma abbiamo anche imparato a produrre (sintetizzare) l’acciaio, mescolando il ferro con altri metalli, e gli agricoltori organici sono ben lieti di poter utilizzare una zappa di acciaio per sarchiare i loro campi…
Le mie conclusioni riguardo all’applicazione dei fertilizzanti è che: i cosiddetti fertilizzanti azotati sintetici si ricavano dall’atmosfera e sono quindi assolutamente naturali. (pag. 363-364)

In questo paragrafo – oltre a non riferire alcunché sullo sconvolgimento operato sui cicli naturali dall’uso massiccio di concimi di sintesi – il processo Haber-Bosch assomiglia a una magia per intrappolare l’azoto atmosferico.

 

Rappresentazione grafica del processo Haber-Bosch (fonte: Wikipedia)

 

In realtà, il trucco c’è e si chiama metano (CH4), senza il quale l’intera operazione è inattuabile. Al di là delle discutibili affermazioni sulle potenzialità del biologico, Moore – colui che tuonava contro il fotovoltaico in quanto “basato totalmente su risorse non rinnovabili” – si perde in inutili sofismi pseudo-filosofici senza accorgersi della criticità più rilevante, ossia che la produzione di ammoniaca è legata mani e piedi a una risorsa non rinnovabile. La medesima amnesia stranamente lo colpisce quando, a pag. 363-364, spiega che i fertilizzanti di sintesi a base di fosforo e potassio hanno origine da giacimenti minerari, sono quindi anch’essi vincolati a materie prime finite. Se davvero l’alimentazione di sette miliardi di persone non può prescindere dal loro apporto, c’è ben poco da rallegrarsi.

Insomma, il paradigma agricolo nato con la Rivoluzione verde “si basa totalmente su risorse non rinnovabili” molto più di quanto non faccia il ‘deprecabile’ fotovoltaico, ma non sembra un problema. Strana schizofrenia intellettuale.

ENERGIA

Polonia vs Lettonia a carte truccate

Nell’Europa dell’est, è interessante confrontare la situazione della Lettonia e quella della Polonia, due paesi con simili redditi pro capite ma con profili energetici ampiamente differenti. La Lettonia produce il 60% della sua elettricità con energia elettrica [immagino si tratti di un refuso del traduttore italiano, ndr], mentre la Polonia dipende dai combustibili fossili – soprattutto carbone – per il 98% della sua elettricità. Di conseguenza, la Polonia emette circa 4,5 tonnellate di CO2 per persona all’anno, più del doppio delle emissioni pro capite della Lettonia, pari a 2,2 tonnellate all’anno. (pag. 299)

Analogamente a quanto accade in altre sezioni del libro, non viene riportata alcuna fonte dei dati. Vista la tempistica della pubblicazione, Moore poteva sicuramente consultare il database on line dell’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), all’epoca aggiornato almeno fino al 2005, dove si trovano cifre differenti: 7,77 tonnellate di CO2 pro capite per la Polonia contro 3,38 della Lettonia. Un’imprecisione non lieve, ma ancora peggio è trascurare l’aspetto più saliente del ‘profilo energetico’ delle due nazioni: la Polonia è un’esportatrice netta di elettricità (trasferisce all’estero circa il 10% della produzione), mentre la Lettonia importa ben il 40% del proprio fabbisogno; pertanto, se la piccola nazione baltica risulta tanto ‘pulita’, ciò avviene perché qualcuno si ‘sporca le mani’ per conto suo.

Vista la difficoltà a cogliere ‘reti di relazioni’ tanto semplici, forse non sorprenderà più di tanto scoprire l’incapacità quasi totale nell’esaminare sistemi complessi.

Ripuliamo le sabbie bituminose

In nome della ‘ragionevolezza’, Moore nel libro esalta le qualità carbon-free di nucleare e idroelettrico, ma non vuole forzare troppo la mano contro i combustibili fossili:

Ripeto che dovremmo fare uno sforzo per ridurre la nostra dipendenza da combustibili fossili e incentivare le fonti alternative dove questo è tecnologicamente fattibile e vantaggioso in termini economici. Ma una riduzione dell’80% dell’uso di combustibili fossili in uno o due decenni distruggerebbe la nostra civiltà più di qualsiasi plausibile impatto del cambiamento climatico, anche se noi ne fossimo responsabili. (pag. 480)

In un recente post su Twitter, possiamo apprezzare la sua convinta adesione alla causa della ‘shale revolution’:

Già ai tempi della stesura de L’ambientalista ragionevole mostrava segni di grande interesse per gli idrocarburi non convenzionali, fino a scrivere una vera e propria apologia del petrolio estratto dalle famigerate sabbie bituminose:

Per osservare le cose in prospettiva, considerate quando una stazione di servizio spilla benzina da un serbatoio sotterraneo che perde. Il sito viene dichiarato “immobile tossico” e deve essere ripulito, spesso con un costo di milioni di dollari. Le sabbie bituminose dell’Alberta sono una massiccia area tossica e le compagnie che vi operano rimuovono il petrolio dal suolo, su una vasta scala, facendo profitto vendendo il petrolio come combustibile per il trasporto. Non stanno lasciando la sabbia più pulita di come l’hanno trovata? Le sabbie bituminose rappresentano una “macchia di petrolio” naturale 100.000 volte più vasta della più grande macchia provocata dall’uomo. Se è desiderabile ripulire una macchia di petrolio in mare o nel sottosuolo, perché non si dovrebbero ripulire le sabbie bituminose? (pag. 340)

Leggendo un commento di questo tenore sul Web, si penserebbe che lo scrivente stia semplicemente trollando i propri interlocutori, dal momento che, per quanto a mio conoscenza, neppure l’industria petrolifera si è mai spinta a dipingere un’attività tanto impattante alla stregua di un’opera di bonifica; a sciocchezze talmente grandi è quasi impossibile replicare a tono. Con qualche semplice ricerca sul Web, si possono facilmente scoprire le ragioni per cui le sabbie bituminose sono con ogni probabilità la fonte di petrolio più sporca esistente.

 

Una zona dell’Alberta (Canada) sottoposta a ‘pulizia della sabbia’ (fonte: Greenreport)

CLIMA

Uno dei capisaldi dell’ambientalismo “ragionevole” recita:

Non c’è motivo di essere allarmati dal cambiamento climatico. Il clima cambia sempre. Alcune delle “soluzioni” proposte sarebbero di gran lunga peggiori delle possibili conseguenze del riscaldamento globale, che peraltro con tutta probabilità saranno largamente positive. Quello da temere è il raffreddamento. (pag. 23)

Non stupisce quindi che l’ex Greenpeace sia un beniamino del negazionismo climatico, di cui nel libro è possibile rintracciare molti cavalli di battaglia, come le polemiche sulle presunte manipolazioni operate dall’IPCC per esagerare la gravità delle loro analisi (i cosiddetti scandali climategate e hockey-stick). Questi però sono poca cosa rispetto alle argomentazioni ‘scientifiche’.

La Terra si raffredda… riscaldandosi

Negli ultimi cent’anni, la temperatura media della Terra è stata oscillante: a volte si è raffreddata, altre volte si è riscaldata. E, a conti fatti, è aumentata abbastanza, specialmente durante il periodo fra il 1910 e il ’40, e quello tra il 1980 e il 98. Dal 1998 non si registra un ulteriore riscaldamento, semmai un lieve raffreddamento. (pag. 445)

A pag. 456 viene riportato una grafico del dataset CRUTEM3, realizzata da Phil Jones della Climatic Reserach Unit, relativo alle temperature medie della Terra registrate dal 1850 ai giorni nostri.

Moore lo commenta così:

Esso indica che la temperatura globale è salita di circa 0,8°C negli ultimi centocinquant’anni. Ma all’incirca la metà di questo riscaldamento si è verificato tra il 1910 e il 1940, prima dell’enorme aumento di emissioni di CO2 e combustibili fossili, iniziato dopo la seconda guerra mondiale. Qual è la causa di questo aumento? Semplicemente non lo sappiamo. Quindi, si è verificato un raffreddamento, dal 1940 al 1980, proprio mentre le emissioni di CO2 hanno cominciato a crescere in maniera significativa. (pag. 456)

Premesso che anche il periodo 1910-40  era stato testimone di un “enorme aumento” di emissioni (doppie rispetto a fine Ottocento), questo sproloquio si spiega solo con l’incapacità di interpretare il grafico. Infatti, intravedendo negli anni Quaranta alcune vette di riscaldamento non eguagliate per un paio di decenni, Moore parla di “raffreddamento” quando, calcolando la media delle temperature rilevate nei singoli anni, il periodo 1940-80 risulta più caldo di quello 1910-40 di circa 0,14 C°. Applicando il medesimo ragionamento distorto, dichiara un altro inesistente mitigamento a partire dal 1998, anno in cui, fino al 2010 (purtroppo il primato è stato successivamente battuto), si era registrato l’apice del riscaldamento della Terra dall’inizio dell’industrializzazione a oggi: numeri alla mano, il 1999-2010 è stato più caldo di quasi 0,35°C rispetto al 1980-1998. Per trovare l’ultimo anno in cui la Terra “si è raffreddata” (ossia si è registrata una temperatura media globale inferiore a quella del periodo di riferimento, che per CRUTEM3 è il 1961-90), bisogna risalire fino al 1985.

La verità quindi è che il pianeta, dall’inizio del XX secolo a oggi, ha subito un processo di riscaldamento con un trend piuttosto marcato che si è affievolito intorno al 1940-80 (un riscaldamento più lento è cosa ben diversa da un raffreddamento), per poi riprendere di intensità. La climatologia – quella scienza cioé che “demonizzerebbe la CO2” additandola a un’unica responsabile delle variazioni climatiche – spiega che hanno contribuito alla decelerazione una diminuzione ciclica dell’attività solare ed eruzioni vulcaniche che hanno immesso nell’atmosfera gas aerosol i quali, a differenza di quelli serra, raffreddano l’atmosfera: di tutto ciò L’ambientalista ragionevole non fa parola.


Fonte: IPCC (2007)

Se pensate che qui Moore abbia raggiunto l’apoteosi del nonsense, aspettate di leggere qualche altra chicca.

L’industrialiazzazione ha salvato la Terra

Una delle tesi più controverse de L’ambientalista ragionevole è che l’industrializzazione, ben lungi dall’aver creato danni rilevanti al pianeta, l’abbia di fatto salvato da fine certa; vengono scomodate persino spiegazioni teleologiche:

Se si ritiene che “tutta la vita agisce di concerto”, come si fa a dire che noi siamo il nemico di Gaia e non piuttosto il suo agente? In altre parole, non è plausibile che Gaia ci usi per per restituire nell’atmosfera una parte delle migliaia di miliardi di tonnellate di carbonio che sono rimasti incastrati nella crosta terrestre per miliardi di anni? Forse a Gaia piacerebbe evitare un’altra grande glaciazione e, cosa ancora più importante, evitare la fine di quasi tutta la vita sulla Terra per mancanza di CO2… (pag.464)
E’ stato un’ottima cosa che gli esseri umani abbiano scoperto i combustibili fossili e li abbiano bruciati per ricavare energia. All’inizio della rivoluzione industriale i livelli di CO2 sono gradualmente diminuiti a 280 ppm. Se questa tendenza, che si registrava da molti milioni di anni, fosse proseguita con lo stesso ritmo, alla fine avrebbe minacciato la vita delle piante in tutto il mondo. A un livello di 150 ppm, le piante cessano del tutto di crescere. Se sulla scena non fossero apparsi gli umani, è possibile che la tendenza declinante dei livelli di CO2 iniziata 150 milioni di anni fa sarebbe proseguita. E, se fosse continuato allo stesso ritmo, circa 150 ppm per milioni di anni, nel giro di poco più di un milione di anni le piante avrebbero smesso di crescere e sarebbero morte. E sarebbe la fine! (pag. 463-464)

Ovviamente non sappiamo se Gaia, nella sua infinita saggezza, sia a conoscenza di qualcosa a noi ignoto – ossia un’imminente variazione dell’orbita terrestre con conseguente nuova era glaciale – e, per tale ragione, abbia condizionato gli umani affinché bruciassero combustibili fossili. Comunque, se davvero si è spaventata per il trend discendente della concentrazione di CO2, deve allora soffrire di gravi crisi di identità, essendosi evidentemente scordata di uno dei suoi principali meccanismi di funzionamento, ossia il ciclo del carbonio.

A parte le battute, l’argomento forte dell’ipotesi Gaia di James Lovelock deriva proprio dal ciclo omeostatico di regolazione che tende a mantenere la CO2 sui livelli consoni per stabilizzare la temperatura; se Moore lo conoscesse a sufficienza, non avrebbe mai concepito la possibilità di un declino inesorabile della CO2 con conseguente scomparsa della vita sulla Terra tra ‘solo’ un milione di anni.

Esiste infatti un ciclo geochimico tale per cui l’anidride carbonica atmosferica reagisce con le rocce di silicato di calcio, creando nuove rocce di carbonati e silice: se questo processo avvenisse in un’unica direzione, l’attività di fotosintesi sarebbe cessata già da moltissimo tempo; invece, dopo lunghi e complicati processi geologici, la CO2 imprigionata nelle rocce ritorna nell’atmosfera attraverso eruzioni vulcaniche, geyser o sorgenti idrotermali. Dettaglio non meno importante, la reazione di trasformazione in carbonato di calcio accelera in caso di alte temperature per ridurre la concentrazione di CO2 e mitigare il clima, mentre rallenta con basse temperature per conservarne di più in atmosfera e favorire il riscaldamento; anche gli oceani assorbono e rilasciano CO2 ricercando l’equilibrio con l’atmosfera, in una sorta di termostato planetario.

Ciclo geologico del carbonio (https://serc.carleton.edu/)

Grazie a questo ingegnoso stratagemma, Gaia può tranquillamente declinare l’aiuto delle multinazionali di petrolio, carbone e gas sopravvivendo ancora per un miliardo di anni circa. Qualcuno avverta Moore per rassicurarlo!

Terra e sole eterni Dorian Gray

Si osservi che il grafico mostra che la CO2 era almeno 3000 ppm, e probabilmente intorno ai 7000 ppm, nel periodo cambriano, l’epoca serra in cui si svilupparono le prime forme di vita moderna. Questa cifra equivale a quasi venti volte la concentrazione odierna di CO2. L’era glaciale che raggiunse il culmine 450 milioni di anni fa si è verificata quando la CO2 era di di circa 4000 ppm: dieci volte più del suo livello attuale. Se sia i climi caldi che quelli freddi possono svilupparsi quando nell’atmosfera c’è una quantità di CO2 di gran lunga superiore a quella attuale, come possiamo essere certi che la CO2 condizioni oggi il clima? (pag. 460)

Apparentemente la constatazione sembra logica, in realtà è viziata alla radice da un presupposto totalmente fallace, ossia che la Terra e il sole abbiano mantenuto invariate le loro caratteristiche nel corso di centinaia di milioni di anni. 3 miliardi di anni fa, al momento della nascita della Terra, la luminosità del sole era il 70% dell’attuale ed è aumentata dell’1% circa ogni cento milioni di anni; il nostro pianeta ha invece conosciuto oscillazioni dell’orbita che, modificando l’insolazione, hanno favorito l’insorgere delle  grandi glaciazioni, mentre profondità degli oceani e conformazioni delle terre emerse hanno subito radicali cambiamenti nel corso del tempo. Pertanto, a differenza di quanto crede Moore, è assolutamente in linea con la climatologia ‘ufficiale’ il fatto che, a distanza di centinaia di milioni di anni, sulla Terra si siano verificati periodi con temperature medie simili ma con concentrazioni molto differenti di CO2 oppure climi freddi in presenza di alti livelli di anidride carbonica. Altrettanto spiegabile è la tendenza storica alla riduzione di concentrazione di CO2 nell’atmosfera, tanto temuta da Moore, tentativo di Gaia di contrastare gli effetti di un’attività solare in costante crescita.

Considerando un orizzonte di tempo più recente, sull’ordine del milione di anni – con radiazione solare quindi relativamente stabile – la correlazione tra concentrazione di CO2 e temperature risulta molto più evidente, insieme all’eccezionalità dei livelli attuali di gas serra nell’atmosfera:

Fonte: Centre for Ice and Climate, University of Copenaghen

(Per le informazioni relative a ciclo del carbonio e andamento storico dell’attività solare: Ugo Bardi, La Terra svuotata. Il futuro dell’uomo dopo l’esaurimento dei minerali, Editori Riuniti University Press, Roma 2011)

Modelli no… ma anche sì

Conosciamo già l’ostracismo di Moore per i modelli al computer, ritenendo il funzionamento del clima troppo complesso per simulazioni adeguate. Contesta quindi aspramente giudizi e previsioni espressi dall’IPCC tramite la loro consultazione, pratica ritenuta idonea per “giudici e giornalisti dogmatici” ma indegna per degli scienziati (pag. 454). Tuttavia, perché nel 2010 si è limitato a una critica generica, quando avrebbe potuto mettere platealmente alla berlina le previsioni delle modellizzazioni elaborate dagli anni Settanta in poi, se davvero sono tanto deficitarie? Forse perché, a dispetto dei pregiudizi, esse hanno fornito un buon grado di affidabilità?

In ogni caso, memore probabilmente del motto “solo gli stupidi non cambiano idea” (i furbi invece spesso e volentieri), Moore si dimostra capace di mutare opinione. Leggiamo a pag. 478:

Al Gore continua a diffondere la paura degli uragani quando non c’è più nessun motivo di preoccupazione. In realtà, gli scienziati dell’U.S. National Hurricane Center prevedono che il riscaldamento globale porterà a una diminuzione degli uragani.

La fonte dell’affermazione è un articolo del Times on line citante a sua volta una ricerca pubblicata su Nature Geoscience, secondo cui il global warming dovrebbe ridurre la quantità complessiva di uragani, precisando però che “tropical storms do occur they could get slightly stronger, with average windspeeds rising by 2-11% by 2100”, dettaglio omesso nel libro. Inoltre, come sono state formulate le previsioni dello studio a cui ‘l’ambientalista ragionevole’ presta tanta fiducia?

Looking to the future, it also draws on computer modelling [grassetto mio, ndr] to predict that the most likely impact of global warming will be to decrease the frequency of tropical storms, by up to 34% by 2100.

Se si tratta di smentire Al Gore, allora anche le modellizzazioni al computer, “affidabili quanto le scommesse sportive”, fanno brodo!

Al diavolo i ghiacciai!

Moore ha un’avversione dichiarata per i ghiacciai, concede che siano “fotogenici” (pag. 466) ma è fermamente convinto che, sparendo dalla faccia della Terra, farebbero solo un favore all’umanità:

Sappiamo che, durante la maggior parte degli ultimi cinquecento milioni di anni, il clima era più caldo di oggi e che la vita è fiorita in quel periodo. Sappiamo anche che sopra, sotto e nei ghiacciai c’è pochissima vita. I ghiacciai sono aree essenzialmente morte, e questo prova che il ghiaccio è nemico della vita. (pag. 466)
Un mondo più caldo, con concentrazioni più alte di CO2 e probabilmente maggiori precipitazioni, consentirà un’espansione delle terre coltivate e una più rapida crescita dei raccolti, oltre che un maggiore rendimento. Foreste e raccolti cresceranno dove ora c’è solo un banco di ghiaccio. Io dico: lasciamo che i ghiacciai si sciolgano. (pag. 469)

Il paragrafo ‘Cos’hanno di utile i ghiacciai?’ è un condensato di cherry picking e mistificazione – a partire dall’idea che a 3.000 e più metri di altitudine o nelle zone artiche possano crescere “foreste e raccolti” – ma non privo di spunti di alta letteratura. Mi sento moralmente obbligato a riportare un passo in polemica con Lester Brown dove si sentono riecheggiare Protagora, il padre della sofistica, e il manzoniano Don Ferrante, il tutto condito con una punta di comicità dell’assurdo degna di Groucho Marx:

Da una parte, egli dice che l’acqua dei ghiacciai è essenziale per la produzione di cibo e d’altra insiste che dovremmo cercare di impedire ai ghiacciai di sciogliersi perché non scompaiano. Ovviamente, se i ghiacciai smettessero di sciogliersi, non rifornirebbero più acqua. Per cui le domande che mi sento di porre a Lester Brown e all’IPCC, sono: state dicendo  che desiderate che i ghiacciai smettano di sciogliersi? Quindi da dove deriverebbe l’acqua per l’irrigazione? E, potrei aggiungere, cosa pensereste se i ghiacciai cominciassero a crescere di nuovo, riducendo ancora di più i flussi d’acqua, e addirittura arrivassero sino alla città dove il cibo viene prodotto? (pag. 469)

A parte questo ragionamento ineccepibile, l’intera tesi sull’inutilità dei ghiacciai è costruita partendo da una constatazione reale, ossia una previsione esagerata di un rapporto del 2007 dell’IPCC riguardante la velocità di fusione dei grandi ghiacciai himalayani, che stanno mostrando capacità di resistenza maggiore di quanto preventivato. Moore aggiunge poi che, stando ad alcune ricerche, solamente il 3-4% delle acque del Gange e di altri fiumi della regione proviene dalla fusione dei ghiacciai, derivando invece il maggior apporto da nevicate e monsoni.

Ovviamente, l’occasione per enfatizzare un errore dell’IPCC tentando di screditarne l’intera opera di analisi era troppo ghiotta, peccato però che ciò non giustifichi minimamente le sue conclusioni. Innanzitutto, l’albedo dei ghiacci non è solo gradevole esteticamente, esercita un feedback negativo sul clima (raffredda): cosa gli fa supporre che, una volta ridimensionati (o del tutto spariti) i grandi ghiacciai, ciò non provocherebbe ripercussioni sui livelli di innevamento e precipitazioni? In secondo luogo, cosa gli fa pensare che il particolarissimo caso dell’Himalaya sia generalizzabile a tutto il pianeta? Uno studio pubblicato su Frontiers in Earth Science, ad esempio, rivela l’importanza fondamentale dei piccoli ghiacciai alpini per alimentare importanti fiumi europei quali Reno, Danubio e Po.

Infine, per quanto concerne le “probabili maggiori precipitazioni”, è strano che a un ecologo sfugga che il punto fondamentale non è tanto la piovosità in sé, bensì la capacità del suolo di trattenere l’acqua contrastandone l’evaporazione. Dagli anni Sessanta, contrariamente alle ipotesi del cultore del ‘fatto oggettivo’, a un ridimensionamento dei ghiacciai si è accompagnato parallelamente un peggioramento complessivo del bilancio idrico globale (misurato dall’indice PDSI, Palmer Drought Severity Index)

Fonte: NOAA

Varazione globale indice PDSI (Fonte: IPCC, 2007)

In questo paragrafo entra in azione un espediente dialettico ripetutamente impiegato nel libro e che infatti vedremo ancora all’opera. Colui che contesta le ipotesi probabilistiche della climatologia pretendendo “calcoli e prove scientifiche”, ritiene di suffragare in modo inoppugnabile le proprie profezie prendendo in esame un caso particolare, astraendolo dal contesto e attribuendogli valore universale, accampando inesistenti rapporti causa-effetto.

Piccolo è grande

Ho lanciato su Internet una ricerca con la frase: “livelli ottimali di CO2 per la crescita delle piante”. Tutto ciò che volevo sapere lo trovai nei primissimi risultati: le piante crescono al meglio con una concentrazione di CO2 pari a circa 1500 ppm, che incrementa il rendimento delle piante dal 25% al 65%. I livelli attuali di CO2 presenti nell’atmosfera globale sono circa 390 ppm. In altre parole, gli alberi e le altre piante che crescono nel mondo trarrebbero beneficio da un livello di CO2 di circa quattro volte superiore a quello attuale. C’è la prova che gli alberi mostrano già tassi di crescita migliori grazie ai crescenti livelli di CO2. (pag. 462)

Moore riporta due note al testo, nella prima delle quali (n.°57) è riportato l’url di una pagina non più on line che non sono riuscito a reperire neppure con Wayback Machine; il sito Web a cui afferiva, Planet Natural, è invece ancora consultabile. Mi ha lasciato non poco interdetto scoprire che trattasi non di rivista scientifica e neppure di think tank o sito di divulgazione, bensì di un’azienda di articoli per il giardinaggio, la quale tra i vari accessori vende anche dispositivi per aumentare la concentrazione di CO2 in apposite serre al fine di promuovere la crescita delle piante, indicando in 1500 ppm un livello ottimale. Paradossalmente, questa ditta mostra un atteggiamento molto più rigoroso di Moore, sentendosi in dovere di specificare quanto segue:

Increasing the level of carbon dioxide in your grow room or hydroponics setup can increase growth and flowering — up to 30% and more — if all other factors — water, light, nutrients — are optimum [grassetto mio, ndr].

Un sito italiano di coltivazione indoor è ancora più esplicito:

Temperatura, umidità, e la concentrazione di CO2, sono tre fattori fondamentali per la crescita in serra o nelle coltivazioni indoor e coltivazione idroponica. Se tutti e 3 i fattori non sono in equilibrio, vi è un rischio per la perfetta riuscita di crescita ottimale, aumentando il rischio di avvelenamento della pianta, di malattie e per finire con la morte stessa della pianta. Condizioni standard di crescita ottimale delle piante in generale includono tipicamente temperature comprese tra 18-27 °C, e una umidità relativa tra 25-50%, e nella fase di fioritura a 28-35 °C, e 1400 ppm di CO2, con il 45-55% di umidità relativa con 7,500-10,000 lumen per 0,5 mq di luce. Questi sono i valori per avere una ottima atmosfera nella crescita indoor, all’interno di una grow room.

Difficile scegliere quale idea sia più idiota, se consultare un venditore di prodotti da giardinaggio per una questione tanto delicata come comprendere gli effetti di elevate concentrazioni di anidride carbonica  sulla vegetazione planetaria oppure utilizzare un micro habitat dove è possibile tenere sotto stretto controllo  le principali variabili (temperatura, umidità, nutrienti, approvvigionamento idrico) per trarre conclusioni valide su di un sistema complesso, caotico e incontrollabile quale il clima terrestre.

Forse consapevole dell’enorme forzatura commessa, l’ex Greenpeace cerca di salvarsi in corner con la seconda nota (n.°58),  che rimanda a un articolo pubblicato su PNAS  dove, effettivamente, si registra una correlazione tra incremento di temperatura e CO2 e crescita delle foreste, ma con alcune importanti precisazioni, omesse nel libro:

There are indications that forest biomass accumulation may be accelerating where nutrients and water are not limiting…
Rising temperatures, especially when coinciding with adequate precipitation and without resource limitation, can increase tree metabolic processes that, in turn, lead to higher biomass accumulation. Temperate forest trees have shown a broader range of temperatures for optimal photosynthesis than have tropical forests, and they can likely respond quickly to increased temperatures.

La situazione è quindi ben diversa dal refrain “più CO2 c’è, meglio per le piante”: a beneficiare di maggiori livelli di anidride carbonica sono state specificatamente le foreste dei climi temperati che, in fase iniziale di tropicalizzazione, hanno sfruttato il maggior calore per potenziare la fotosintesi congiuntamente alla presenza di adeguati livelli di acqua e nutrienti (Natural Plant docet!), altro dettaglio per nulla scontato in caso di ulteriore aumento delle temperature. Cercando su Internet con più attenzione, Moore avrebbe trovato ad esempio interessanti articoli del 2007 di New Scientist relativi ai problemi patiti da alcune foreste tropicali a causa del cambiamento climatico, nonché a tutta una serie di altre variabili limitanti sulla crescita delle piante.

Adottando un’ottica riduzionista, l’ex Greenpeace segue un ragionamento lineare di questo tipo:

+ temperatura e CO2 = + crescita vegetazione.

che può essere in qualche modo valido in una serra altamente monitorata, ma non certo in un ambiente naturale sottoposto a continui feedback che, superati determinati punti di non ritorno (tipping point), alterano radicalmente il funzionamento del sistema:

L’assorbimento globale di CO2 è dato dal bilancio tra produzione primaria netta e perdite globali di CO2 dovute alla respirazione delle piante, alla decomposizione organica e alla combustione. All’aumentare della concentrazione di CO2 aumenta (se c’è disponibilità di acqua e nutrienti nel suolo) anche la produzione primaria netta. Tuttavia questi due processi non sono direttamente proporzionali: l’aumento della produzione di biomassa tende a procedere sempre un po’ più lentamente fino ad un certo valore limite oltre il quale la biomassa non cresce più anche se la CO2 continua ad aumentare. Se oltre ad aumentare la concentrazione di CO2 aumenta anche la temperatura, si innesca un processo contrapposto: l’aumento di temperatura fa aumentare i processi di respirazione delle piante e dei suoli e accelera il ritmo di decomposizione della materia organica. Analogamente agli oceani, se la temperatura supera una certa soglia i sistemi vegetali da assorbitori diventano emettitori e la biomassa di depaupera. Un processo che già oggi è realtà, basti pensare alla torrida estate del 2003.
L’aumento delle temperature ha, infatti, accentuato i processi di respirazione (perdita di CO2) rispetto a quelli di fotosintesi (assorbimento di CO2) delle piante e degli ecosistemi vegetali; inoltre, la diminuzione delle precipitazioni ha modificato le caratteristiche chimiche, biogeochimiche e di evapotraspirazione dei suoli, sfavorendo i processi vitali delle piante stesse e favorendo, viceversa, i processi di decomposizione organica, con ulteriore emissione di CO2. (WWF Italia)

In definitiva, dopo la prima argomentazione imbarazzante, Moore per provare la sua tesi non trova nulla di meglio che stravolgere il significato di un serio articolo di ricerca generalizzando indebitamente (di nuovo) i riscontri di un dato locale.

Oceano acidificato, oceano migliorato

Secondo L’ambientalista ragionevole, l’acidificazione dell’oceano “è un esempio perfetto di scenario catastrofico architettato ad arte” (pag. 476).

Il contenuto del sale dell’acqua di mare conferisce agli oceani un’enorme capacità di reazione al cambiamento di pH. Piccole aggiunte di sostanze acide possono modificare facilmente il pH dell’acqua dolce, mentre l’acqua del mare può neutralizzare vaste aggiunte di sostanze acide e alcaline…
Come per le piante terrestri, è stato pienamente dimostrato che l’aumentata concentrazione di CO2 nel mare porta a più alti tassi di fotosintesi e a una crescita più rapida. La fotosintesi ha l’effetto di di accrescere il pH dell’acqua, rendendola più alcalina e neutralizzando qualsiasi effetto secondario acido della stessa CO2. I proprietari di acquari di acqua salata aggiungono spesso CO2 all’acqua per aumentare la fotosintesi e la calcificazione: una pratica simile a quella dei coltivatori che aggiungono CO2 nell’aria delle loro serre per favorire una crescita più rapida delle piante. Una vastissima letteratura scientifica suggerisce che l’aumento di CO2 nell’oceano porterà a un aumento della crescita e della calcificazione, in contrapposizione al catastrofico scenario evocato da NRDC, Greenpeace e altre organizzazioni. (pag. 475-476)

Poche righe prima, Moore aveva deriso uno studio di Science del 1998 dedicato alla ricostruzione del pH oceanico negli ultimi milioni di anni, in quanto parzialmente basato su modelli al computer. Data la diffidenza per l’informatica, perché invece delle simulazioni storiche non ha consultato le misurazioni oggettive compiute a partire dagli anni Novanta a oggi, già di pubblico dominio all’epoca della stesura del libro eppure da lui totalmente ignorate? Forse perché esse confutano senza appello tanto ottimismo, evidenziando una riduzione lineare del pH delle acque oceaniche parallelo all’aumento di CO2?

Fonte: NOAA

Inoltre, a quale “vastissima letteratura scientifica” si riferisce Moore? Nelle note al testo riporta tre ricerche. Una, apparsa nel 1995 su Coral Reefs, riguarda la crescita di coralli in acque salate a basso pH e alta concentrazione di nutrienti nel Waikiki Aquarium di Honolulu, Hawaii, un ambiente quindi altamente controllato non paragonabile al macro habitat oceanico. Parimenti a quanto accade con le serre, la somministrazione di CO2 in acquario non può avvenire casualmente ma deve essere correlata a determinati parametri, in particolare la durezza carbonatica (KH) dell’acqua.

Le altre due, “Acid Test: the Global Challenge of Ocean Acidification” – a New Propaganda Film by the National Resources Defense Council Fails the Acid Test” e “Co2, global warming and coral reefs: prospects for the future, sono entrambe realizzate congiuntamente dal Science and Public Policy Institute e dal Center for the Study of Carbon Dioxide and Global Change, cioé due organizzazioni note per la loro aperta avversione alla climatologia. La letteratura scientifica a favore dell’incremento di CO2 negli oceani è talmente “vastissima” che Moore, per suffragare le proprie tesi, non ha trovato di meglio che pubblicazioni di think tank apertamente negazionisti.

In realtà, la ricerca accademica non ideologicamente orientata condivide gli stessi timori della maggiori ONG ambientaliste. Consultando più approfonditamente l’archivio di Coral Reefs, si trova un articolo del 2008 dove si giunge a conclusioni diametralmente opposte a quelle dell’ex Greenpeace:

The prospect of ocean acidification is potentially the most serious of all predicted outcomes of anthropogenic carbon dioxide increase. This study concludes that acidification has the potential to trigger a sixth mass extinction event and to do so independently of anthropogenic extinctions that are currently taking place.

Tutto ciò non si discosta da quanto segnalato l’anno prima da Science, che definiva “estremamente rischiose” per i coralli e gli ecosistemi marini che ne dipendono le politiche volte a superare una concentrazione di CO2 atmosferica oltre 500 ppm; moniti che riflettono preoccupazioni ampiamente condivise all’interno della comunità scientifica, come testimoniato dal documento diffuso nel 2009 dallo IAP (InterAcademy Partnership: The Global Network of Science Academies).  Il ‘ragionevole’ e ‘scientifico’ Moore ha invece preferito ignorare queste fonti qualificate affidandosi all’autorità di Sherwood B. Idso, presidente del Center for the Study of Carbon Dioxide and Global Change, persona che può vantare come referenza un unico articolo di ricerca in regime di peer review dedicato agli effetti dell’anidride carbonica sull’atmosfera (risalente al 1980) e due libri che –  ammissione del medesimo Idso – sono stati pubblicati a sue spese.

In conclusione: Patrick Moore, l’antitesi della ragionevolezza scientifica

La decostruzione critica de L’ambientalista ragionevole potrebbe tranquillamente continuare (chi volesse può controbattere le discutibili affermazioni su energia, biotecnologie, silvicoltura, acquacoltura, sostanze tossiche, ad esempio); forse sorprenderà l’assenza di riferimenti a due tematiche a cui il nome di Moore viene spesso associato, ossia nucleare e OGM, ma l’ho fatto per una ragione ben precisa. In quei casi l’ex Greenpeace si limita a ripetere senza particolari apporti personali le argomentazioni della propaganda lobbystica, la quale dovrebbe così risultare corroborata dalla sua autorevolezza di studioso ‘eretico’ conquistata in altri campi, clima in primis. Ritengo che quanto ho sviscerato sia più che sufficiente per esprimere, su basi obiettive, un giudizio severamente negativo sull’attendibilità scientifica di Moore e, indirettamente, anche sulla credibilità di chi lo sostiene e lo usa come testimonial per le proprie campagne.

Chiarisco che non contesto l’approccio dichiaratamente ‘di parte’ del libro: ricollegandomi a un interessante contributo di Ezio Roletto apparso sul blog della SCI, all’interno di una dissertazione scientifica, hanno pieno diritto di cittadinanza creatività, opinioni personali e preferenze individuali, purché inserite nella corretta cornice epistemologica. Allo stesso modo, sarebbe alquanto ingeneroso demolire un’opera solo per qualche errore o alcune forzature, specialmente quando riguardano un campo interdisciplinare come l’ecologia; anzi, se affermazioni avventate ma non totalmente infondate, inserite qua e là all’interno di una disamina rigorosa e coerente, fanno da apripista a nuove e più precise prospettive di ricerca, allora sono benvenute (ho in mente il ruolo esercitato in tal senso da grandi classici dell’ambientalismo, come Primavera silenziosa di Rachel Carson, The population bomb di Paul Ehrlich e I limiti dello sviluppo).

Nel caso de L’ambientalista ragionevole, però, a fare acqua purtroppo è l’intera impalcatura intellettuale, a partire da criteri di analisi e metodologia, per cui gran parte del discorso si risolve in un profluvio di bias, cherry picking e mistificazione. In particolare sono evidenti:

  • mancanza di rigore metodologico: come già ampiamente spiegato, il problema di fondo dell’opera è la pretesa di analizzare la complessità attraverso la lente del riduzionismo. Quelli che all’autore sembrano, in stile tardo positivista, fatti oggettivi con rilevanza universale, sono per lo più fenomeni particolari decontestualizzati e impiegati a fini polemici contro l’ecologia ‘ufficiale’, per altro distorta a piacimento per costruire arbitrariamente un quadro favorevole alle sue teorie;
  • disarmante faziosità: non saprei come definire altrimenti l’atteggiamento di chi evita di riportare le argomentazioni più scomode per le proprie tesi (vedi omissione impronta ecologica e indicatori di impatto ambientale, dati sull’acidificazione degli oceani, ecc), condanna le modellizzazioni informatiche del clima per avallarle invece quando gli fanno comodo e si inventa una personale definizione di sostenibilità, impiegandola per altro con sfacciato doppiopesismo;
  • incompetenza palese e ostentata: senza mettere in discussione la buona fede dell’autore, bisogna allora prendere atto di lacune imbarazzanti su clima, evoluzione della Terra, ciclo del carbonio e altre tematiche che dovrebbero essere familiari a un ecologo e consulente ambientale;
  • uso disinvolto delle fonti: nel XXI secolo è perfettamente ammissibile, a determinate condizioni e con precisi limiti, allargare il panorama della letteratura scientifica al di là della ristretta torre d’avorio dell’accademia, prendendo ad esempio spunto dagli orientamenti della cosiddetta scienza postnormale. Tuttavia, sostenere tesi ‘eretiche’  tramite documentazioni di think tank dalle dubbie credenziali o presentandole semplicemente come autoevidenti non ha nulla da spartire con una seria strategia scientifica. Nell’introduzione Moore cerca di pararsi dalla critiche specificando che il libro non vuole essere “né una trattazione esaustiva né un lavoro specialistico”, ragion per cui i riferimenti bibliografici sono stati limitati a quelli “utili per una controprova o una lettura più approfondita” (pag. 23). Una divulgazione agile e non appesantita da un eccessivo apparato bibliografico è senza dubbio accettabile e persino auspicabile, ma solo quando si riportano al grande pubblico in forma semplificata le nozioni ampiamente condivise dalla scienza specialistica, non certo quando le si contrasta frontalmente; altrimenti si riduce tutto a mere chiacchiere.

Siccome la mia non vuole essere una critica totalmente distruttiva, chiarisco che il mio obiettivo in questa sede era testare la tanto decantata attendibilità scientifica. Se, diversamente dai sostenitori di Moore, si legge il libro per quello che è realmente – ossia un testo di opinioni argomentate con grande verve dialettica ma privo di rilevanza scientifica – allora può risultare un apprezzabile manifesto dell’ambientalismo declinato all’interno del business as usual: utile quindi per comprendere le ragioni di una lobby, non per informare sulle interazioni tra uomo e natura.

In chiusura segnalo che, attualmente, uno scienziato competente e apprezzato a livello internazionale come Ugo Bardi non riesce a trovare alcun editore italiano disposto a pubblicare le sue ultime opere, pare che la motivazione addotta sia la scarsa propensione del pubblico di casa nostra per la divulgazione scientifica. Quando però si tratta di libri che veicolano messaggi ‘ragionevoli’ sulle questioni ambientali – oltre a Moore penso a Dario Bressanini, Mario Giaccio o Chicco Testa, ad esempio – si trovano disponibilità e risorse. Davvero curioso.

 

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