Il grande passo

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Il mondo in cui viviamo noi cittadini della post-modernità è sempre più immaginario e sempre meno reale. Di un immaginario plasmato dalla virtualità delle informazioni, dell’intrattenimento audio-visivo, della comunicazione tecnologicamente mediata. Un mondo nuovo vissuto sempre meno con gli occhi e sempre più con la mente, ove gran parte dell’informazione appare svincolata da riferimenti a oggetti solidi e accresce di continuo la propria autonomia significativa. Mangiamo la sua carne, ma ci arrabbiamo quando vediamo un cavallo maltrattato, giacché non colleghiamo più automaticamente la pietanza che troviamo confezionata nel supermercato sotto casa con l’animale reale: li percepiamo come due oggetti radicalmente distinti, privi di connessioni salienti, finché un giorno qualcuno non ci fa notare l’ovvio, e allora ci rendiamo conto che già lo sapevamo, che lo avevamo sempre saputo, ma che avevamo smesso di pensarci. Si tratta dell’altra faccia, oscura, di una società dell’informazione apparentemente priva di zone d’ombra: abbagliati dalle luccicanti etichette che lo suddividono e categorizzano, rinunciamo a toccare, guardare, indagare e sperimentare il mondo in prima persona. In tal modo l’irrealtà della speculazione finisce per prevalere sull’intuizione dei sensi, rendendoci qualcosa di profondamente diverso dagli esseri umani vissuti 100, 1000 o 4000 anni fa.

Vi è stato un cruciale passaggio di consegne, da qualche parte nella seconda metà del secolo scorso, fra una generazione che trovava facile il bricolage e ostica la tecnologia, e un’altra in grado di fare cose mirabolanti con un pc ma incapace di maneggiare un comune cacciavite. Esiste oggi il rischio reale che un black out di dimensioni globali ci faccia morire di fame con i magazzini colmi di approvvigionamenti, semplicemente per l’impossibilità di mandare un’email a chi di dovere. Non si tratta quindi di un problema limitato alla nostra percezione della realtà e perciò privo di effetti tangibili. A questa trasformazione delle menti si è accompagnata infatti la grande trasformazione delineata da Karl Polanyi, che ha segnato la quasi estinzione degli stili di vita basati su autoproduzione e autoconsumo lasciando il passo alla grande produzione concentrata geograficamente in pochi impianti, centralizzata e svincolata dall’effettiva domanda, che va quindi creata artificialmente. A ciò non solo è corrisposta la creazione di giganteschi apparati atti al confezionamento, conservazione (nel caso dei beni alimentari ma non solo), distribuzione e vendita dei prodotti; ingranaggio vitale della nuova megamacchina è infatti la grande industria pubblicitaria che, in un’epoca dove l’informazione è tutto e le etichette sono più importanti del prodotto, si è estesa in modo capillare, entrando sempre più intimamente nelle nostre vite al fine di creare quei bisogni fittizi che alimentano una domanda ipertrofica. E questa megamacchina ci appare oggi naturale e necessaria, quando invece è ingombrante, rumorosa e possiede un impatto incalcolabile sull’ecosfera. Di più, esclusi gli addetti ai lavori la gente tende a ignorare completamente struttura ed entità del processo che ogni giorno porta dal cavallo-animale alla carne confezionata del supermercato.

Il primo passo, quindi, come si sente ripetere da più parti – all’interno del movimento decrescentista ma non solo -, è l’acquisizione di una consapevolezza diffusa circa l’effettivo funzionamento del sistema e le sue esternalità negative, per poter poi cambiare il primo al fine precipuo di limitare le seconde. Anche le persone che ne sono consapevoli, tuttavia, non ne sono per questo immuni. Anche loro devono recarsi al supermercato a “fare la spesa” o indossare i vestiti prodotti in serie e trasportati qua dall’altra parte del mondo con grandi costi in termini di inquinamento e risorse (solo per fare due esempi fra i più comuni): possono leggere sotto le etichette, possono strapparle, ma una volta fatto devono aprire la confezione e mangiare qualcosa. In “loro”, ovviamente, mi metto dentro anche io.

Il vero problema, dunque, non sta nell’apparato in sé, quanto nella nostra incapacità a rinunciavi. Date queste premesse, appare necessario fare un altro grande passo, che non si limiti all’essere consapevoli del problema, ma che comprenda una rinuncia volontaria all’indolenza; che non si limiti alla lotta allo spreco, ma che comprenda una rinuncia al consumo eccessivo e un ritorno graduale a filiere di produzione-consumo a chilometro zero. Certo, non si tratta di un passo facile, al contrario: tutte queste cose sono faticose, per la mente come per il fisico. Di più, non le si possono attuare maneggiando etichette, non è sufficiente sapere tutto di management e di borsa. Direi che ha più a che fare con gli ortaggi e col saper riparare una sedia. Si potrebbe dire, riallacciandosi al discorso iniziale, che si tratta di rendersi consapevoli del problema a livello concreto e non solo intellettuale, e di recuperare un po’ del senso pratico dei nostri antenati, senza per questo rinunciare alle conquiste tecniche dell’ultimo secolo, ma tentando invece di ottimizzarne i costi in termini di risorse e di esternalità negative.

L’altro rischio è infatti quello di perdere di vista il fine (il benessere dell’uomo) sostituendolo col mezzo (la preservazione dell’ambiente e degli stock di risorse) o, peggio ancora, di snaturare la critica decrescentista trasfigurandola in una crociata neo-luddista contro i capisaldi immaginativi e tecnici del mondo contemporaneo.

L’invito è a lavorare sulle nostre percezioni, sforzandoci di guardare sotto il tappeto limpido del consumismo, per coglierne la vera natura; a recuperare un po’ di sobrietà, di praticità e di “saper fare”. E soprattutto a sforzarci di agire in direzione delle nostre idee. In questo modo raggiungeremo gli scopi nobili che ci prefiggiamo prima che sia troppo tardi. Troppo tardi per il pianeta, e di conseguenza troppo tardi per l’Uomo.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

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