Dossier migrazioni 3/Demolire luoghi comuni e riflessioni finali

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In quest’ultimo articolo del dossier migrazioni, cerchiamo di smontare luoghi comuni consolidati e di elaborare alcune riflessioni conclusive.

Tentativi di sostituzione etnica e migrazioni provocate

E’ molto semplice scoprire se esiste davvero un piano diabolico delle super élite globali per rimpiazzare la popolazione europea con quella africana: verificare se le leggi sull’immigrazione dei principali paesi del vecchio continente sono diventate più lassiste nel corso del tempo. In realtà, è facile constatare l’esatto contrario: in Italia, si è passati dalla legge Turco-Napolitano alla ben più stringente Bossi-Fini, senza che alcuna maggioranza di qualsiasi orientamento introducesse sostanziali modifiche; la UE è scesa a compromessi con Erdogan per bloccare il transito di profughi via Turchia; Macron, da molti considerato la punta di diamante del neoliberismo attuale, si è distinto per aver criticato l’Italia sulla questione migranti chiudendo però le frontiere a Ventimiglia e limitando gli approdi di navi che avevano operato soccorso in mare; progetta inoltre dispiegamenti di forze militari in Mali e Niger onde bloccare i flussi. E’ pertanto evidente che l’argomento della sostituzione etnica è solamente una vile forma di incitamento all’odio, oltre che un assurdo sul piano pratico (numeri ovviamente troppi risicati, in particolare per quanto riguarda la componente migratoria femminile) ed economico (non pare una grande genialata trasformare il secondo maggior mercato del pianeta in una massa di sottoccupati a scarso potere d’acquisto).

Le restrizioni all’immigrazione smentiscono anche l’idea secondo cui i flussi siano provocati artificiosamente per ottenere manodopera a basso costo. Come vedremo nel prossimo paragrafo, i migranti servono allo scopo, ma in quantità relativamente limitate da non richiedere certo indesiderabili esodi epocali; lo stesso dicasi per il business dell’accoglienza, il cui volume d’affari è per altro ridicolo se confrontato con quello condotto dalle aziende occidentali in Africa.

Migranti necessari per la società italiana

Si sente spesso ripetere della necessità di immigrazione per la sostenibilità del sistema pensionistico e per quei segmenti di occupazione disdegnati dagli italiani; tra i vari che hanno ripetuto tale mantra, c’è anche il presidente dell’INPS Stefano Boeri. Ovviamente, al pari di chi predica il sovranismo per se stesso e la globalizzazione per gli altri, siamo di fronte a un atteggiamento ipocrita e chiaramente razzista, perché intende l’immigrato unicamente in funzione degli interessi della società italiana. Cerchiamo però di approfondire al di là dell’aspetto morale della faccenda.

Il reddito dell”Italiano medio’ nel 2018 ammonta a circa 20.940 euro (in crescita rispetto al 2015), non esattamente quello di una persona interessata a fare il bracciante o la badante. Ovviamente, si tratta della classica e fuorviante ‘media dei polli’; grazie al Rapporto annuale 2017 dell’ISTAT, possiamo invece ricostruire più precisamente la composizione della società italiana:

 

 

Le famiglie a basso reddito con stranieri occupano il fondo della classifica. Ma questo ‘esercito industriale di riserva’ non era stato fatto venire proditoriamente in Europa per abbassare gli stipendi dei lavoratori locali? In realtà, ciò avviene molto raramente e in caso di mansioni scarsamente qualificate; la tendenza complessiva sulle retribuzioni pare invece ininfluente o addirittura opposta:

 

Sembrerebbe proprio che, man mano una nazione migliora il proprio tenore di vita occupando una posizione centrale del sistema mondo (e la nostra scalcinata Italia, malgrado tutto, gravita ancora ai limiti del centro), i migranti costuituiscano una risorsa per sostituire fasce sociali autoctone non più sufficienti per le mansioni ritenute più degradanti (come i braccianti agricoli). Contrariamente alla faciloneria di chi parla di assenza di razzismo, esso invece è fondamentale per integrare i migranti ma all’interno di una dimensione subordinata e discriminata, ostacolando l’insorgere di sentimenti di solidarietà che potrebbero agevolare rivendicazioni sindacali.

Ne consegue pertanto che, in assenza di una profonda trasformazione culturale e politica che cancelli lo stigma sociale da determinate attività, senza migranti il sistema avrà bisogno di nuovi ‘ultimi degli ultimi’. Vista la natura reazionaria dei movimenti  anti-immigrazione – e quella prettamente ‘nordica’ di una certa forza politica attualmente al governo – viene facile immaginare dove verranno identificati i nuovi sostituti.

Il ruolo delle ONG

Una delle ‘prove evidenti’ del carattere artefatto delle migrazioni sarebbe dimostrato dall’azione di salvataggio di alcune ONG nel Mediterraneo. In particolare, sotto accusa è la figura di George Soros, dal momento che molte organizzazioni fanno riferimento al finanziere di origini ungheresi.

I denigratori di Soros tendono a darne una rappresentazione caricaturale, invece siamo di fronte alla classica persona che può presentare aspetti criminali, ma per nulla stupida. Lui, Bill Gates, Warren Buffet e pochi altri rappresentano l’ala più ‘ragionevole’ del famigerato 1% che controlla il mondo, consapevole che tirando troppo la corda per difendere a oltranza ogni privilegio si rischia di perdere tutto alla maniera dei nobili francese dell’Ancien Regime e che è quindi indispensabile agire in modo oculato, elargendo concessioni e, in caso estremo, praticare qualche ‘sacrificio’ (virgolette quanto mai d’obbligo trattandosi di ipermiliardari). Soros, una volta arricchitosi all’inverosimile grazie alle speculazioni contro la sterlina inglese e la nostra lira, invece di insistere fanaticamente a mungere il sistema si è ‘accontentato’ e anzi si è fatto promotore di riforme della finanza, ma non solo. Leggiamo da una sua intervista del 2001:

Il sistema che abbiamo e’ iniquo perche’ e’ controllato dai paesi ricchi. E cosi’ i potenti della Terra lo gestiscono per raggiungere i loro scopi, non quelli dei paesi in via di sviluppo. Di conseguenza, la periferia soffre sempre di più.

Cercando con cura in Rete, si trovano anche dichiarazioni contro le politiche di austerità europee e la leadership egoista della Germania. Tutto questo non in ottica filantropica, bensì per evitare situazioni di non ritorno, con il serio rischio di mandare in corto circuito l’intero sistema se si punta unicamente alla massimizzazione dell’interesse di parte.

Il soccorso ai migranti rientra perfettamente in questo quadro. Quale impatto potrebbe avere per i paesi ai margini dell’economia-mondo vedersi privati delle opportunità concessa dalla migrazione, che investe principalmente fasce di popolazione in età giovane e inquieta? Quali conseguenze produrrebbe a livello economico e politico un drastico ridimensionamento delle rimesse dei migranti, che rappresentano un flusso finanziario fondamentale per l’Africa?

 

Soros e compagnia – a differenza dei sovranisti che pretendono botte piena e moglie ubriaca, ossia niente migrazioni ma nessuna trasformazione dell’economia globalizzata – sono consapevoli delle potenziali gravissime destabilizzazioni che potrebbero investire la periferia e conseguentemente l’approvvigionamento di materie prime fondamentali per gli stati centrali, con conseguente paralisi dell’economia mondiale; ecco quindi l’apertura verso il fenomeno migratorio. Del resto, il modello della Open Society, dove alla completa libertà di movimento delle merci si accompagna quelle delle persone, è l’unica forma di globalizzazione vagamente desiderabile per i popoli dei paesi più poveri del mondo (che, non lo si dimentichi mai, nella loro debolezza politica-economica rappresentano pur sempre qualche miliardo di persone dall’età media molto bassa, una massa umana quindi per nulla trascurabile).

Premesso ciò, la boutade secondo cui le ONG hanno agito da ‘taxi del mare’ è totalmente infondata; scrive l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI):

È logico attendersi che la maggiore incidenza di salvataggi in mare da parte di imbarcazioni delle Ong (passata dal 1% del 2014 al 41% nel 2017), assieme alla tendenza di queste ultime a operare nei pressi delle acque territoriali libiche (come rilevato dall’agenzia europea Frontex), possano aver spinto un maggior numero di migranti a partire, aumentando di conseguenza il numero di sbarchi.
Ma i dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane. A determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori, tra cui per esempio le attività dei trafficanti sulla costa e la “domanda” di servizi di trasporto da parte dei migranti nelle diverse località libiche.

 

Stereotipi su migranti e migrazioni

Se c’è un elemento che unisce i ‘no migrazioni’ e i ‘buonisti’ è la narrazione secondo cui i migranti sono persone deboli (“massa di schiavi post-identitari e senza coscienza di classe, umiliati, strutturalmente instabili, servili e sfruttabili senza impedimenti e a ogni condizione”, Fusaro dixit), sottoposti a una sorta di nuova tratta gestita da organizzazioni criminali.

Un libro che consiglio vivamente per aprire la mente sulla questione  è A sud di Lampedusa di Stefano Liberti, giornalista di inchiesta che ha ripercorso in prima persona i viaggi dei migranti dall’Africa sub-sahariana fino alle sponde del Mediterraneo, portando alla luce una realtà profondamente diversa da quella normalmente strombazzata dai media. Riporto un passo particolarmente emblematico del capitolo finale, dove Liberti riflette all’interno del cimitero delle navi sequestrate a Lampedusa:

Si nascondevano gli immigrati, si nascondevano gli sbarchi, si nascondeva il centro di permanenza temporanea, si nascondevano persino le barche che arrivavano. Tutto doveva avvenire in modo poco vistoso. Ma questa frenesia del nascondere, quest’ansia del rimuovere, sembrava avere uno strano effetto collaterale: finiva per investire il tutto di un senso di tragica grandiosità. Questo desiderio di non dire, questa volontà manifesta di non mostrare, gettava sugli arrivi una luce mitica, li rivestiva di un significato eroico. Il fatto di parlare di “viaggi della speranza”, di mostrare gli sbarchi come il capitolo ultimo di traversate improbabili su barche improvvisate, trasformava i viaggiatori in eroi moderni, che pur di fuggire dai proprie paesi avevano sfidato un destino avverso e l’eventualità di una morte quasi sicura. Sembrava una contraddizione: sarebbe stato meglio presentare i viaggi per quello che erano, traversate pericolose ma non spedizioni al limite del suicidio sull’onda della disperazione. Sarebbe stato più logico dire che avvenivano su barche solide e che i naufragi erano incidenti di percorso, non una drammatica prassi quotidiana. Ma questa contraddizione era forse solo apparente… se i viaggi erano esodi, se la molla era la disperazione, se le barche erano gusci instabili, non si proiettava su quanti arrivavano un’aura di eroismo, ma un senso di ingenuità, di inconsapevolezza al limite della follia. L’immigrazione non era il risultato del legittimo desiderio di avventura, di fuga, o di miglioramento che animava i viaggiatori. Era il frutto di un’illusione.

Rispetto alle visioni ‘pro immigrazione’, Liberti scopre non solo che rifugiati politici ed esuli dalla guerre costituiscono una minoranza sul totale, ma che l’espatrio è programmato tramite forme di compartecipazione comunitaria, unendo le forze non solo per pagare le carovane nel Sahara ma anche per procurarsi un’imbarcazione per solcare il Canale di Sicilia, spesso ben diversa dalla classica bagnarola immortalata dai TG. Così facendo, si smontano anche le rappresentazioni dei ‘contro immigrazione’, all’insegna del ‘traffico di esseri umani’ (non a caso l’Unione Africana ha preso posizione contro Salvini che aveva parlato apertamente di ‘schiavismo‘). In particolare, le traversate nel deserto, a cui il giornalista ha partecipato personalmente, sono gestite da organizzazioni informali dove ciascun gruppo etnico vanta contatti nelle destinazioni di partenza, transito e arrivo per agevolare i propri compatrioti; scenario dove sicuramente si intersecano contrabbando e altre attività illegali, ma ben lontano dalle spietate e disumane associazioni criminali dell’immaginario popolare. Insomma, se l’organizzazione comunitaria e non ufficiale dei viaggi ricorda da vicino quella  delle migrazioni dall’Europa all’America a cavallo di Ottocento e Novecento, la determinazione dei giovani africani insoddisfatti di cercare un futuro migliore all’estero assomiglia moltissimo a quella dei duecentocinquantamila nostri connazionali che ogni anno lasciano per l’Italia il Nord Europa e gli USA, ovviamente con le dovute differenze.

Che fare?

L’Italia, al pari del resto dell’Occidente, ha approfittato a piene mani della crisi debitoria  africana descritta nella scorsa puntata del dossier, senza subire eccessivi effetti collaterali: oggi, a causa anche della posizione geografica, la bomba le è esplosa tra le mani e la situazione si è fatta drammatica, perché quasi tutte le nazioni africane e asiatiche più povere non hanno potuto approntare quelle misure di protezione sociale che avrebbero potuto favorire almeno parzialmente la transizione demografica. La piaga della sovrappopolazione ha invece trovato pochissimi argini.

Ovviamente, tutto ciò non può tradursi nella liberalizzazione totale del fenomeno migratorio, per evidenti ragioni sociali ed ecologiche, così come non è immaginabile l’idea della ‘fortezza Europa’ decisa a mantenere inalterato lo status quo a prezzo di una repressione crescente, magari esternalizzata al nuovo governo libico e altri paesi di frontiera. Qualsiasi intervento sui flussi migratori è lecito solo se si accompagna a precisi impegni per rivedere a fondo la struttura economica mondiale (in particolare il rapporto gerarchico centro-periferia) e più in generale a riformare tutti i meccanismi che incentivano le migrazioni (vedi puntata 2). Nel caso specifico dell’Italia, nella prima puntata abbiamo mostrato tanti aspetti critici nel rapporto con l’Africa, di cui spesso sono protagoniste società a maggioranza di capitale pubblico quali ENI e SAIPEM, per cui la politica risulta doppiamente responsabile.

Come per tutte le cose, occorre soprattutto analizzare con onestà intellettuale. Il vento politico attuale porta ad affrontare i fenomeni migratori come se fossero coinvolte entità provenienti da altri pianeti (riducendo quindi tutto a una questione di buoni o cattivi sentimenti) oppure esponendo verità di comodo basate su polemiche strumentali (ad esempio attaccando la Francia del ‘globalista’ Macron presentandola come unica responsabile del neocolonialismo, omettendo qualsiasi riferimento all’Italia o alle mire espansionistiche cinesi). In generale, ‘buonisti’ e ‘populisti’, portano avanti spiegazioni parziali o inconsistenti (guerre, complotti) lasciando in secondo piano – o oscurando completamente – il problema fondamentale: il mondo e come esso è organizzato e strutturato. Perché ragionare seriamente di migrazioni non significa investigare su di un fenomeno isolato, bensì sulla natura profonda della società di casa nostra e di quella globale.

Fonte immagine in evidenza: www.piuculture.it

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

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