SANTU SITRU

Viaggio sul filo dei ricordi fra polpi, bombe, Mercedes e vino battezzato.

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Dalla provinciale, attraversando argentee chiome d’ulivo, che quasi si chiudevano al di sopra del gibboso rettilineo d’asfalto, si giungeva a quella meravigliosa selvaggia perla incastonata nello Ionio che era Sant’Isidoro, nella marina di Nardò, Santu Sitru per noi locali. Un mare limpidissimo, che lasciava intravedere il candido fondale sabbioso, incorniciato a valle dall’abbagliante arenile e a monte dalla bionda isoletta.
Un nugolo di spartane casette, più giù della chiesetta, costituivano il borgo, assieme ad un pugno di trulli e a qualche casupola coperta da eternit che si trovavano intorno alla Torre. Al tempo, eravamo alla fine degli anni ’60, non vi erano strade asfaltate, eccetto la già citata provinciale e la litoranea appena realizzata; illuminazione pubblica non ve ne era, e neppure servizio di nettezza urbana. In compenso il servizio antirandagismo funzionava benissimo, assicurato dai ragazzini a colpi di “pietre vive” assestate con gratuita efferatezza sul cranio di ogni cane che capitava loro a tiro. Alla Torre si accedeva da un malmesso tratturo a fondo di terra rossa, pieno di scogli affioranti, costeggiando capperi e miserrime vigne di Primitivo cinte da siepi di fichi d’india che spesso, già a metà luglio, si mostravano con le pale accartocciate dalla crudele siccità. Due delle casupole che sorgevano intorno all’antica torre erano adibite a trattorie caserecce, se così, con molta benevolenza, si potevano definire. Offrivano un menù a dir poco essenziale, ma a giudicare dalla fruizione, efficace: polpo fritto, cozze nere crude curate nelle acque salmastre delle allora ancora incontaminate sorgenti, provolone, mortadella affettata a mano, vino rosso battezzato, ovvero annacquato in “articulo mortis” dall’oste, birra, gassosa e aranciata “Santa Maria”. Negli anni una di queste trattorie divenne, non si sa per quale curiosa affinità elettiva, “refugium peccatorum” per tante di quelle signore che i polpi li friggevano metaforicamente in gran copia praticando la professione più antica del mondo. Una terza trattoria sorgeva dall’altra parte della spiaggia a pressoché esclusivo appannaggio dei copertinesi. Il tabacchino sulla spiaggia, un alimentari, e una baracca mille-articoli completavano la serie degli esercizi commerciali di Sant’Isidoro. La baracca mille-articoli era allocata nei pressi della spiaggia, sotto la chioma degli allora unici alberi da ombra della località, una quinta di sbilenchi cipressetti bruciati dal salso. Era gestita da Uccio Maritati, ribattezzato Uccio dell’Upim, per l’enorme quantità di articoli che riusciva a tenere in quei due metri quadri che gli fungevano, oltretutto, anche da casa. Perennemente impegnato a leggere il Secolo d’Italia e con un passato misterioso alle spalle, era sempre disponibile, ma anche volitivo e intollerante, tanto che quasi non passava giorno, che non litigasse con qualcuno. Ciò nonostante riusciva simpatico ai più e persino ai tanti che non condividevano le sue idee politiche, spesso provocatoriamente ostentate. L’approvigionamento del latte e dei formaggi freschi veniva assicurato, oltre che dalle due masserie presenti nella zona, la Sarparea De Pandi e la Sarparea De Noha, anche da alcuni nuclei familiari, tutti rigorosamente appartenenti alla copiosa stirpe dei Pagano di Copertino, che si trasferivano a villeggiare nel borgo con tutti gli armenti al seguito. Anche i pescatori, a Sant’Isidoro, appartenevano quasi tutti ad un’unica schiatta: quella de’ Li Rizzari, al secolo Rizzo, soprannome derivante non dal loro cognome, bensì dalla loro attività prevalente, che era appunto quello di pescatori di ricci. Al tempo. erano ancora tutti attivi i cinque anziani fratelli: Carmine, Pici, Michilinu, ‘Nzinu, e Ucciu, che con molta della loro folta progenie, erano dediti alla pesca dei ricci utilizzando specchio ed aste munite di ranca e mappa per ciò che riguardava, appunto, i ricci, e alla pesca ai polpi utilizzando lo specchio e la fiocina. La pesca a vista ai polpi necessitava di notevole abilità, poiché, a seconda della profondità del fondale, per raggiungere la preda si dovevano innestare fino a tre aste da quattro metri e talvolta anche una prolunga detta “cannulu” in una sequenza rapidissima, e con la perfetta intesa con il rematore che doveva riuscire, seguendo a perfezione i comandi, a mantenere la barca a piombo sulla preda per tutto il tempo necessario. Queste operazioni impegnavano tutti i sensi e necessitavano di un coordinamento straordinario e di notevole forza fisica. Durante questo tipo di pesca, veniva catturata anche qualche altra preda, soprattutto razze, sornioni pesci civetta, seppie, ma anche pinne nobili e spugne. Nel giro di qualche anno però questa forma di pesca venne completamente soppiantata dalla più pratica pesca con un’apposita lenza la, cosiddetta polpara, che aveva il non trascurabile vantaggio di poter essere praticata da un solo pescatore. In tutto, il piccolo scalo sotto la torre, ospitava una decina di piccoli gozzi, rigorosamente tutti dipinti a bande orizzontali verdi e rosse, ad eccezione di uno dipinto con di color grigio, motovedetta, lo scopo era quello di renderlo mimetico, era infatti adibito principalmente alla pesca con le bombe. Già, perché anche Sant’Isidoro, ospitava qualche rappresentante della al tempo ampiamente diffusa categoria dei bombaioli. Bombaioli, che se pur perseguitati, non mancavano in nessun altro approdo della costiera, poiché per una sorta di patto, più sottinteso che sottoscritto, ogni barca da bombe aveva il suo tratto di mare da cui, non doveva sconfinare, pena il risvegliarsi di vecchi rancori e gelosie di mestiere che trovavano sovente sfogo in furibonde, plateali liti. Alterchi così violenti, che davano agli sgomenti spettatori, l’impressione che stessero lì per lì per degenerare in cruenti epiloghi. Quella delle bombe era una pratica antica, spesso tramandata da padre in figlio e che si era man mano evoluta, passando dalla primitiva pericolosissima polvere pirica a base di clorato di antimonio preparata in casa ed i cui ordigni potevano esplodere al minimo urto, ai ben più stabili e micidiali ordigni di cordite e tritolo sino a quelli al plastico. Esplosivi che venivano in gran parte recuperati da residuati bellici oppure triangolati di contrabbando dalle tante attività che ne facevano uso. Ricordo, che da ragazzino già condannavo questa deprecabile forma di pesca, ma oggi, nonostante consideri una conquista di civiltà il fatto che sia stata quasi completamente debellata, devo riconoscere un grande fascino alle tante storie quotidiane che questi bombaioli, piccoli eroi per bisogno, vivevano.
Barche di pescatori dilettanti ve ne erano solo tre: l’Archetti di mio padre, sulla quale passavo spesso l’intera giornata quando non anche la notte, una piccola “seppia” in vetroresina ed una bella lancia di cinque metri il cui proprietario praticava pionieristicamente e devo dire molto fruttuosamente, la pesca con l’autorespiratore. Ne ricordo il rientro con le grandi vasche azzurre a tre manici sempre piene di ogni ben di Dio: cernie, dentici, orate, altre volte di arche e spondili e talvolta persino delle oggi rare magnose prelevate dai fondali vergini insieme ad astici e aragoste. A completare il parco barche solo una piccola barca a vela in compensato marino con vela Marconi e fiocco, ordinata in kit ed autocostruita dal proprietario, un signore di Copertino che, grande ammiratore del mitico Ser Francis Chichester, la utilizzava per compiere rapide veleggiate con il favore delle brillanti brezze settembre-ottobrine e per rifugiarsi sull’isoletta onde rifuggire alla più minima presenza umana. In quell’incontaminato ambiente si comportava come se stesse su di un atollo sperduto nell’oceano, non rivolgeva mai neppure lo sguardo, verso la terraferma, ne si voltava al passaggio di qualche sparuta imbarcazione, palesemente infastidito da quella indiscreta presenza. Nulla doveva disturbare la sua voglia di quiete, quel parossistico oziare a pancia all’aria per intere giornate. Neppure il bizzoso tempo autunnale lo bloccava in casa, determinato com’ era a fare un’indigestione di sole, di mare e di aria.
Ma l’aspetto più singolare della località era sicuramente la tendopoli che veniva allestita già in estate inoltrata dai copertinesi in riva al mare e, precisamente, nel luogo dove qualche anno dopo sarebbe sorto il più grande impianto di stabulazione mitili d’Europa. Somigliava, senza mezzi termini, a quelle bidon-ville che sorgono alla periferia delle grandi città del terzo mondo: un ammasso di teli, travi e lamiere ondulate dove, in prevedibile promiscuità, vivevano ed assolvevano a tutti i bisogni centinaia di persone e animali. In mezzo a tutto ciò, a fare da contrasto, anche tante Mercedes ed altri mostri meccanici di grossa cilindrata quali le particolarmente appariscenti Ford Taunus bicolori, tutte rigorosamente con le targhe teutoniche e classicamente agghindate con tendine e tappezzeria leopardata. La zona era conosciuta con due toponimi diversi: “Puertu ti li Pignate”, era quello adoperato dai pescatori locali, derivante dalla presenza in loco di enormi depositi di cocciame di anfore onerarie. Era invece denominato “Lu Currente” dai copertinesi. Questo secondo toponimo, derivava dalle copiose sorgenti d’acqua dolce che vi sfociavano. I baraccati, onde scaricare lo stress accumulato nella dura vita di emigranti, fatta di regole cui mal si adattavano, si dedicavano a tutta una serie di produttivi svaghi quali la raccolta delle chiocciole; la pesca delle “corze”, grossi granchi pelosi; quella con i “boccacci” ai piccoli cefali e; soprattutto, alla pesca con le bombe. Ogni giorno, lanciavano in mare decine di piccoli, rudimentali ordigni approntati lì per lì. Appena notavano un guizzo, un’increspatura anomala o un’ombra sotto la superficie del mare, resa trasparente con abbondanti aspersioni d’olio, lanciavano una bomba ed una torma di ragazzini si tuffava immediatamente in mare a recuperare le prede, generalmente cefalotti e salpette. Nelle immediate adiacenze della zona, non esisteva alcun esercizio commerciale, per cui, un anno, decisero di cambiare sito e trasferirsi nei pressi della torre, dove vi era almeno questa comodità, quindi, in omaggio al progresso, sfruttando come scarico una naturale cavità carsica, edificarono anche un confortevole gabinetto sociale costituito da un unico modulo di poco più di un metro quadro, senza copertura, da cui con un sottile divisorio ottennero due postazioni. Sul prospetto troneggiava la scritta “Uomini – Donne” e due tendine variopinte proteggevano i fruitori da occhi indiscreti. All’interno erano state costruite due tazze sempre in pietra di tufo, con il bordo ben intonacato in modo da offrire un contatto liscio. Ma l’ostilità con la quale furono accolti dai nativi e le conseguenti, frequenti liti, li fecero presto rimpiangere il tradizionale sito, complice anche una tromba d’aria, che a metà stagione spazzò via l’intera tendopoli. Ciò fu interpretato come un segnale divino per cui, l’anno seguente ritornarono all’avito “Currente”, dove il gabinetto non fu più edificato, prestandosi eccellentemente allo scopo le conche delle scogliere (con bidet incorporato) ed i cavi tronchi d’olivo della confinante Sarparea. In quegli anni Sant’Isidoro ospitava la tonnara e continuò a farlo fino al ’74, anno in cui venne soppressa: dalla punta di Santo Nicola, alle spalle della torre, si spingeva a ponente per circa un miglio e mezzo fino alla camera della morte, ove stazionavano fissi due grandi barconi utilizzati per la leva. Oltre a tanti ambiti tonni rossi, ricordo la grande varietà di pesci pelagici che questa catturava, fra cui i rari pesci luna, le aguglie imperiali, tartarughe e talvolta persino qualche esemplare della rarissima tartaruga liuto, dopo secoli di rivalità e controversie, a causa del calo delle catture e della conseguente antieconomicità, le tonnare di Nardò e Gallipoli cessarono entrambe nello stesso anno la loro attività. Inesorabilmente, il progresso avanzava, le ruspe cominciavano ad irrompere sempre più spesso negli oliveti; palazzi e casupole prendevano il posto delle vigne di Primitivo; loschi speculatori coprivano di cemento la spiaggia e “Lu Currente” sottraendolo definitivamente ai baraccati, turisti mordi e fuggi si sostituivano agli umili pittoreschi personaggi e così, il risultato è sotto gli occhi di tutti, piace davvero a pochi, ma piaccia, oppure no, poco importa, tutto ciò venne chiamato progresso!

Immagine in evidenza: costa di Sant’Isidoro

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Gastronomo, scrittore, giornalista, naturalista, cuoco, specialista generico nelle produzioni agroalimentari meridionali di mare e di terra. Pubblicazioni: - La Cucina del Salento ed. ANDO 1996 - La Cucina del Salento ed. BESA 1999 - Cicorielle e Lampascioni ed. BESA 2000, libro sulle piante spontanee mangerecce del Territorio Salentino d’interesse gastronomico. - Piccolo Codice della Cozza ed. BESA 2001, primo trattato a carattere divulgativo sulla Cozza o Mitilo, finalista al premio letterario Città di Chiavari, “Forchetta e Badile”. - Salento, Sapori e Profumi, C.C.I.A.A. di Lecce 2004, Atlante dei prodotti tradizionali della provincia di Lecce. - La Cucina del Mare di Puglia ed Besa 2004, trattato sulle specie ittiche pugliesi e loro impiego gastronomico. - Ricette e Segreti della Cucina Salentina, Guitar Edizioni 2005. - Ricette e Segreti dei Dolci del Salento, Guitar Edizioni 2006 - Salento di Sapori, C.C.I.A.A. di Lecce 2007, Atlante dei prodotti tradizionali della provincia di Lecce. - Santi, pìttule e cazzateddhre, vol. I e II, Guitar Edizioni 2007 - A.B.C. della Cucina Salentina, vol. I, II, III, Guitar Edizioni 2009 Svariati, sono stati inoltre i contributi su diverse pubblicazioni. Ha anche scritto alcuni racconti pubblicati su vari libri e riviste, taluni dei quali sono stati premiati in concorsi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche.

3 Commenti

  1. Non sono di quelle parti, ma ricordo anch’io la magia di piccoli paradisi isolati, quando ancora non vi erano giunti strade, chioschi e vacanzieri. E la magia di divertirsi con poco, solo stando insieme. Tra gli anni 70 e 80, sara’ un’idea mia, ma vedevo intorno a me anche rapporti umani piu “ricchi” che oggi, forse perche le famiglie monoreddito avevano piu tempo libero e serenita, non saprei. Comunque abbiamo sacrificato moltissimo sull’altare della modernita’, pensando che fossero tutti passi in avanti verso il Futuro.
    Mio padre diceva sempre che piu tardi nasci e meglio e’… ha smesso di dirlo negli anni 90.

  2. Nuovi valori che riempiano la vita
    Ho sempre pensato che se si chiedesse a qualsiasi persona (anche benestante) quale fosse la parte più bella della sua vita probabilmente risponderebbe “l’infanzia” e/o “l’adolescenza (ovviamente a meno che non siano state trascorse durante la guerra oppure in particolari condizioni familiari o di povertà). Invece vedo sempre persone scontente, che non riescono a riempire la propria vita di cose interessanti.
    Penso che uno dei punti leva che ci faranno uscire dalla brutta situazione in cui ci troviamo sarà la ricerca di cose straordinarie (che non sono necessariamente costose) con cui riempire la vita. I bei ricordi dell’infanzia e/o dell’adolescenza, non sono tali perché i nostri genitori ci riempivano di regali o di cose più o meno inutili: ci bastavano solamente una accettabile alimentazione, disponibilità di acqua, le necessarie cure mediche e poco altro.
    Ciao
    Armando

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