Quale agricoltura e per quale futuro?

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‘Un’agricoltura sostenibile per nutrire il pianeta’, recita lo slogan dell’Expo di Milano 2015. Come non condividere tale auspicio? Persino Coca Cola, ENI, Enel, FIAT, Samsung e Intesa San Paolo hanno voluto sostenere economicamente l’iniziativa –  forse con questo gesto intendono dire: che almeno l’agricoltura non segua le nostre stesse strategie economiche!
Ovviamente, è implicito che, se si propone un’agricoltura improntata alla sostenibilità, quella attuale di sostenibile ha ben poco. Ma, al di là di qualche vaga allusione al persistere della denutrizione e al fenomeno del consumo di territorio, quali sono i problemi concreti che deve affrontare l’agricoltura globale?
Esaminando la questione superficialmente, basandosi solo sui numeri, viene da pensare che la situazione non sia poi così grave. Nel 2014, la produzione cerealicola mondiale ha raggiunto il livello record di 2,5 miliardi di tonnellate, con le scorte che ammontano a circa il 25% del prodotto – come dire che, sulla carta, si potrebbero nutrire circa 8 miliardi e mezzo di persone. La FAO ha anche segnalato che l’incidenza dello spreco alimentare è elevatissima, dovuta in particolare al pessimo funzionamento della grande distribuzione. Se la denutrizione persiste, ciò si deve non a problemi produttivi, bensì alle storture del sistema economico, tali per cui circa ottocento milioni di persone restano escluse dall’accesso al cibo a causa della povertà – non hanno denaro sufficiente per permetterselo. Se aggiungiamo che, nel 2006, c’è stato lo storico sorpasso del numero degli obesi sui denutriti, e che molte risorse agricole vengono sottratte all’uso alimentare per la produzione di biocarburanti, è facile concludere che l’intera problematica si possa risolvere tramite misure ‘riformiste’ improntate alla redistribuzione e a una maggiore giustizia sociale.
Purtroppo, la realtà è ben più complessa e molto meno rosea. Così come un atleta dopato non può illudersi che le sostanze illegali non sortiscano effetti collaterali sull’organismo, l’agricoltura globale non può pensare di proseguire a lungo con i trend attuali, perché è ben lontana da qualsiasi ipotesi di sostenibilità. Ogni nuovo primato produttivo che ottiene, avviene a scapito di qualche componente della biosfera. Scrive Claudio Della Volpe (ricercatore di chimica fisica applicata presso l’Università di Trento):

L’agricoltura moderna invece di garantire la sopravvivenza della specie umana nella biosfera ed il ricambio delle sostanze che ci garantiscono la vita a partire dall’acqua, dall’azoto, dal fosforo, si trasforma sempre più in un improvvido e fragile metodo produttivo monocolturale che dipende dall’energia del petrolio e dai prodotti di sintesi in quantità crescenti e che dopo aver alterato il ciclo dell’acqua, dell’azoto e del fosforo e distrutto gran parte dell’ambiente naturale e delle specie in esso viventi si avvia a diventare uno dei nostri principali problemi… L’agricoltura moderna basata su un ristretto numero di piante, prevalentemente annuali (con un mercato dei semi sempre più strappato al controllo dei singoli produttori) è sempre più fragile e dipendente da prodotti di sintesi che garantiscono la produzione di sempre meno specie ma in sempre maggiore quantità, più interessata al profitto continuo che all’integrazione dei bisogni umani nell’ecosistema complessivo.

Le constatazioni di Della Volpe si basano su dati facilmente riscontrabili. Innanzitutto, agricoltura, allevamento, gestione delle foreste e altri usi del suolo sono responsabili di circa il 25% delle emissioni di gas serra, di cui una quota consistente proviene dall’utilizzo di fertilizzanti chimici, i quali rilasciano nell’atmosfera protossido di azoto, un gas il cui potenziale di riscaldamento è quasi trecento volte quello del biossido di carbonio.

gas serra agricoli

(dati ed elaborazione grafica di Greenpeace)

In secondo luogo, l’agricoltura contemporanea è legata a doppio filo a una risorsa che, normalmente, non si tende ad associare al cibo, cioé il petrolio. Esso non si limita a fornire combustibile per i trattori e gli strumenti meccanici, perché i suoi derivati sono componenti fondamentali di fertilizzanti e pesticidi chimici: non a caso, quando il prezzo del petrolio è schizzato ai massimi storici dopo il blocco dell’OPEC del 1973 e poi nel periodo 2005-08, è sempre seguita una crisi alimentare causata dall’aumento indiscriminato del costo dei prodotti agricoli fondamentali. Le conseguenze a lungo termine, in un mondo oramai giunto al picco di produzione del petrolio convenzionale, sono  inquietanti.

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Se si riduce il ‘doping’ per aumentare la resa per ettaro, si va ad aggravare ulteriormente il già serio problema della carenza di suolo agricolo. Dagli anni Cinquanta agli anni Duemila, la quantità complessiva di terreni agricoli è rimasta invariata ma la popolazione è più che raddoppiata, per cui si è passati da 0,6 a 0,25 ettari pro capite*. La riconversione ad altri usi e l’impoverimento dei suoli esistenti per eccessivo sfruttamento hanno richiesto la creazione di nuovi terreni agricoli, con le foreste principali vittime sacrificali. Negli ultimi anni pare che, nonostante la massiccia deforestazione, la disponibilità di terreni agricoli cominci sensibilmente a diminuire.

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Rielaborazione dati della FAO operata da Manuel Castelleti

Le biotecnologie, in particolare il ricorso alla manipolazione genetica, vengono presentate come un rimedio per perpetuare i trend produttivi della cosiddetta Rivoluzione Verde: nel 2006, Bill and Melinda Gates Foundation e Rockefeller Foundation hanno fondato la Alliance for a Green Revolution in Africa (Agra), allo scopo di diffondere le sementi OGM in Africa.

Ovviamente, vista la gravità del problema alimentare, nessuna soluzione va scartata a priori. Tuttavia, da una parte è naturale che le opzioni più rischiose – e giocare con le basi della vita non può non essere rischioso, sia sul piano ecologico che su quello sociale – vengano riservate come extrema ratio, dall’altra si impone una riflessione ancora più importante: in quale contesto agricolo viene ipotizzato l’uso delle sementi geneticamente modificate? In uno scenario basato su alti rendimenti, meccanizzazione e ricorso massiccio a prodotti chimici di sintesi, incompatibile pertanto con i limiti del pianeta.

Non esistono soluzioni preconfezionate all’immane sfida che l’umanità si trova ad affrontare, ma una cosa è certa: un’agricoltura globalmente sostenibile non potrà derivare da logiche miranti a decontestualizzarla dalle esigenze complessive della biosfera, poiché la produzione alimentare è solo la punta di un iceberg di proporzioni molto più vaste, dove interagiscono dinamicamente problematiche che di solito non vengono associate all’agricoltura (esaurimento delle risorse non rinnovabili, trend demografici, distribuzione commerciale del cibo, ecc.). Tentare nuovi ritrovati per ‘dopare’ il terreno può forse rappresentare una soluzione tampone, ma solo per finire in guai ancora peggiori.

*Donella e Dennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del piante nel terzo millennio, Mondadori, Milano 2006

Immagine in evidenza tratta da Wikimedia Commons

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

3 Commenti

  1. L’intervento di Domenico su Facebook, a proposito di questo articolo di Igor, deve fare riflettere, perchè è rappresentativo di un’obiezione sostanziale mossa da piu’ parti. Sintetizzo:” per potere applicare la decrescita serve ridurre drasticamente la popolazione mondiale. Solo allora si potrà tornare ad una agricoltura di tipo tradizionale”.

    Credo non sfugga a nessuno che, per quanto sia problematica la crescita esponenziale della popolazione, così come si è manifestata dalla Rivoluzione Industriale in poi, sia uno stato di fatto, col quale bisogna fare i conti.
    Va osservato che, da un punto di vista demografico, la fertilità femminile sta calando; l’età media della popolazione mondiale sta crescendo, seppure non in modo omogeneo sul pianeta. Questo “rallentamento”, tuttavia, diverrà evidente a partire dal 2050. A quella data, sulla Terra vi saranno circa nove miliardi e mezzo di individui. Poi quel numero tenderà a scendere negli anni successivi.
    Questa è la realtà e questo dicono i modelli previsionali, concordi tutti i demografi.

    A questo punto possiamo riformulare la domanda: “per sfamare il pianeta serve necessariamente questo tipo di agricolutra industriale e sostanzialmente monocolturale, oppure si può pensare ad una agricoltura tradizionale in grado, comunque di sfamare gli abitanti della terra, anche meglio di quanto avvenga ora?”

    A tale proposito va rilevato che una grande quantità di suolo è attualmente destinata a:
    – coltivazioni cerealicole e praticole per l’allevamento del bestiame (soprattutto bovini)
    – coltivazione di vegetali utili per la produzione di biocarburanti

    Se a questa destinazione/consumo di suolo aggiungiamo anche le terre salinizzate, per via dello scioglimento progressivo delle calotte polari; i terreni desertificati e inariditi a causa delle coltivazioni intensive basate su arature profonde e massiccio impiego di nutrienti e diserbanti, abbiamo il quadro completo dello stato dell’arte.

    Credo non sfugga a nessuno che un’agricoltura “altra” non può che essere l’altra faccia della medaglia di un modello di sviluppo del tutto diverso dall’attuale.
    Il consumismo distrugge la qualità della vita; moltiplica le disuguaglianze territoriali e nelle risapettive società. Tale consumismo coinvolge anche il cibo: in molti caso sprecato.
    E’ stato stimato che, quasi un terzo, finisca in pattumiera.

    Mi ha colpito una trasmissione televisiva, girata in Giappone. In una intervista, il gestore di un grosso fast food raccontava come da loro i tramezzini farciti dovessero essere sempre freschissimi: non più di quattro ore di vita. Dopodiché devono essere sostituiti con altrettanti. I primi, immancabilmente, finiscono nel sacco dei rifiuti. Per cui, su scala nazionale, tonnellate di prodotto finisce in pattumiera.
    Da noi è la stessa cosa: basta chiedere alle grandi catene distributive che fine fanno i cibi prossimi alla scadenza.
    Questo è solo un piccolo esempio dello spreco; del tutto connesso alla logica “usa e getta” che sostanzia il modello consumistico.

    Allora, se con Expo 2015 e con la Carta di Milano non si vuole partorire solo ipocrisia e parole vuote, serve che si ragioni sugli effetti della globalizzazione, sulla standardizzazione che avanza (basti pensare al trattato TTIP in itinere al Parlamento Europeo). Se non si parla di sovranità alimentare, di rivalutazione delle comunità locali, di consumo di prossimità, di rispetto e riconoscimento del valore sociale dei piccoli produttori, allora Expo sarà una delle tante passerelle dei poteri forti ed una grande, ulteriore occasione persa.

    • L’obiezione a cui si riferisce Daniele è relativa a un commento dove si sosteneva che la decrescita non vuole affrontare il problema della sovrappopolazione. A queste persone penso che sfugga il fatto che la decrescita non un’ideologia universalista (non neanche un’ideologia). Se vivessimo in Bangladesh o in Nigeria, ad esempio, come decrescenti affronteremmo sicuramente il tema della sovrappopolazione con grande enfasi, ma siccome viviamo nell’Europa dei tassi demografici bassi ma dell’impronta ecologica eccessiva, il nostro discorso si concentra sui consumi.
      Sinceramente, non credo che arriveremo mai ai 9 miliardi di persone previsti dagli attuali trend demografici: se dovesse verificarsi il collasso economico previsto da World3, ad esempio, potrebbe accadere quello che è successo in Russia e nelle repubbliche ex URSS, ossia una contrazione dell’aspettativa di vita rispetto agli standard sovietici, senza grandi cataclismi ma influendo sensibilmente sulla demografia. Ovviamente chi vivrà vedrà.
      Riguardo all’agricoltura che ci servirebbe, non parlerei di agricoltura ‘tradizionale’ ma piuttosto ‘post-moderna’, che sappia integrare conoscenze antiche con le più avanzate scoperte agroecologiche.
      Per quanto riguarda l’EXPO, sono coinvolte anche persone che stimo, come Stefano Bocchi, l’autore dell’interessantissimo libro Zolle. Storie di tuberi, graminacee e terre coltivate. Ma anche dentro Banca Mondiale o FMI ci sono persone di valore, eppure si sa cosa partoriscono quelle istituzioni. Non credo siano in grado di uscire dai paradigmi consueti.

  2. Considerato che oggi è la Giornata Internazionale delle Lotte Contadine, quest’articolo mi sembra quanto mai riuscito.
    Agricoltura intensiva e necessariamente monocolturale, la massiccia immissione sul mercato di “sementi morte”, cioè capaci di produrre frutto per un solo anno perchè possano essere ricomprate quello successivo, colture OGM e land grabbing finalizzato alla produzione di biocarburanti, non possono – in nessun caso – essere considerate una soluzione. Anche se parliamo di fame nel mondo e di sovrappopolazione, non credo si possano prendere in considerazione.
    “La terra a chi la lavora”, sostiene da vent’anni La Via Campesina, perché ha ragione Daniele quando dice che sovranità alimentare e l’autosufficienza sono le sole vie percorribili per diminuire la nostra impronta ecologica e per garantire a tutti di che mangiare. E’ ciò che è “piccolo” ad essere sostenibile: piccolo si, ma per tutti. Ciò che è “grande” (anzi “grandissimo”) è, in sostanza, sfruttamento: delle risorse come delle persone.
    La via dell’agricoltura non è industriale, ma contadina. Le nuove tecniche vanno benissimo, anche io cerco di aggiornarmi e di studiare ciò che è meglio per la mia terra, purchè non sminuiscano in alcun modo il valore sacrale che le attribuisco. So che se volessi smettere di essere piccolo produttore, dovrei cominciare con i diserbanti e i pesticidi: ettari ed ettari di lattughe non ti consentono di strappare l’erba a mano. Ma so già che ne convieni anche tu.
    Le politiche attuali e il futuro TTIP non fanno che portarci sempre sulla stessa strada e l’Expo è solo una vetrina per chi di queste politiche è protagonista da anni. Vicende di corruzione a parte, a me non sembra che da quei tavoli possa uscire qualche nuova prospettiva.

    Ad ogni modo, questo tuo articolo mi è piaciuto molto: da decrescente e da contadina. Domani lo posto sulla mia pagina fb: mi devo vantare un po’ di avere un amico così in gamba 😀

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