Clima e Afghanistan, gli imprevisti prevedibili

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La recente attualità è stato contrassegnata da due eventi che i mass media hanno diffuso apparentemente con grande stupore: mi riferisco alle previsioni ben poco rosee sul futuro del clima diramate dal sesto rapporto dell’IPCC e alla caduta di Kabul nelle mani dei talebani.

Per quanto riguarda il clima, non ci sarebbe granché da commentare: malgrado i solenni impegni (non vincolanti) delle conferenze internazionali e i proclami urbe et orbi alla transizione ecologica, le emissioni di gas serra sono continuate a salire e la condizione dei principali carbon sink (foreste e oceani) è gradualmente peggiorata. Se una persona con un tumore ai polmoni dichiara guerra al fumo ma contemporaneamente aumenta il consumo giornaliero di sigarette (o al massimo lo stabilizza), non ci sorprendiamo se la sua salute poi peggiora; dunque, mutatis mutandis, non capisco perché farlo ora con il clima.

Mi sento solo di condividere l’appello diffuso sui social media dalla psicologa Annalisa Corbo a leggere bene il rapporto e a non cedere alla retorica del “siamo fottuti”, la quale finirebbe solo per spingere a un rassegnato immobilismo anche le persone genuinamente interessate a impegnarsi per la salvaguardia della biosfera. La situazione è grave e in parte compromessa, ma esistono margini di manovra sui quali occorre impegnarsi con tutte le forze. Mi permetto di consigliare più pragmatismo e meno litanie sulla ‘incapacità dei sapiens’, molta di moda tra gli ecologisti, magari rivelatrici di qualche aspetto interessante, ma che stringi stringi non fanno altro che alimentare la gran cassa del fatalismo.

Per quanto concerne invece l’Afghanistan, guardando le immagini della capitale riconquistata dai talebani rivivo il medesimo stato d’animo già provato con la commemorazione del ventennale del G8 di Genova: comprendere di essere sempre stato dalla parte del giusto ma senza avvertire il minimo compiacimento, solo profonda amarezza.

I paragoni con quanto avvenuto in Vietnam del Sud non sono fuori luogo, perché sia a Saigon che a Kabul erano stati instaurati governi inetti e corrotti, sgraditi alla maggioranza della popolazione e incapaci di reggersi senza il sostegno yankee. Gli USA, oggi come nel 1975, hanno deciso di staccare la spina una volta ritenuto che gli oneri superassero i benefici (che la situazione potesse essere gestita meglio, in entrambi i casi, è un altro discorso). Non un colpo di testa improvviso, comunque, dal momento che già Trump il 29 febbraio 2020 aveva firmato un accordo con i Talebani che prevedeva il ritiro completo delle truppe americane.

Anche a fronte di ciò, fanno decisamente sorridere (per così dire…) le dichiarazioni di tanti politici caduti dal pero. Limitandoci a qualche chicca di casa nostra:

“Biden ha sbagliato, niente patti con i talebani” (Matteo Renzi). Meglio intesserli con il regime teocratico saudita, uno dei più rigidi al mondo nell’applicazione della sharia ma anche uno dei più generosi a pagare politici occidentali disposti a parlarne bene (dopo essersi intascato 80.000 euro per una semplice conferenza agiografica, chi non griderebbe al “nuovo Rinascimento”?).

“La democrazia non si può esportare con la guerra” (Enrico Letta). Evidentemente una professione di autocritica, in quanto l’attuale segretario del PD nel novembre del 2001 votò a favore dell’intervento militare in Afghanistan. Speriamo non gli servano altri vent’anni per capire che ‘esportare la democrazia’ non è mai stato lo scopo di Bush jr e di chi lo ha succeduto, ma almeno apprezziamo un piccolo un passo nella giusta direzione.

“Vergogna. Non è umano lasciare donne e bambini ai tagliagole” (Matteo Salvini) Lasciare in pasto ai talebani maschi adulti è invece cosa buona e giusta? Il leader della Lega si è poi corretto precisando successivamente che “Non possiamo accogliere migliaia di profughi” ma solo “alcune decine di persone che hanno collaborato con la nostra ambasciata” (che molto difficilmente saranno state donne o bambine). Dopodiché, in un impeto di (parziale) generosità, è tornato sui propri passi: “Afghanistan: corridoi umanitari per donne e bambini in pericolo certamente sì”. Quindi è confermato, i maschi adulti possono pure crepare tutti.

In ogni caso, per quanto un dignitoso silenzio rimanga l’opzione preferibile per la maggior parte dei politici italioti e occidentali in genere, pochi di loro rasentano la bassezza morale di dovrebbe non solo rimanere muto, ma andare letteralmente a nascondersi. Mi riferisco al grande teologo della guerra umanitaria, il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, che ha tuonato alle telecamere di RTL: “Gli americani se ne sono andati in un modo assolutamente misterioso: nessuno ha combattuto una battaglia, li abbiamo abbandonati mani e piedi… Abbiamo consegnato donne afgane e democratici afghani nelle mani di terroristi islamici”.

L’appello a “proteggere le donne afghane” è comprensibile ma, anche senza essere cultori del femminismo più estremo, puzza un bel po’ di paternalismo patriarcale e colonialista. Tende infatti a presentare le donne afghane come soggetti deboli e passivi che devono ogni conquista ottenuta alla generosità dell’occupante occidentale, senza il quale tornano a essere docili marionette.

Poco prima della conquista di Kabul, il gruppo femminista afghano RAWA ha rilasciato un’intervista emblematica, dove viene svelata una realtà dell’occupazione molto diversa dalla rappresentazione edulcorata dei grandi media. Ne consiglio caldamente la lettura per un’idea realistica di quanto è successo e sta succedendo in una delle aree più disastrate del pianeta, anche per capire come mai gruppi fanatici e violenti quali i talebani riescano a trovare vasto consenso.

Personalmente, ritengo che il clamore sulla questione afghana si esaurirà nel giro di poche settimane, quando altri eventi occuperanno le prime pagine. Del resto, sentendo invocare nuovi interventi militari, viene quasi da pensare che sia meglio così. Mi rifaccio sempre a un precetto basilare della medicina che, come ha spesso ripetuto Noam Chomsky, è altrettanto utile in politica: se non puoi essere di aiuto, almeno non aggravare la situazione. Un altro intervento in stile 2001 aggiungerebbe solo danni a danni.

Il neonato emirato islamico entrerà quasi certamente nell’orbita della Cina, che blandirà i talebani per implementare quella ‘modernizzazione senza modernità’ (per usare un’espressione di Latouche) già attuata da Arabia Saudita e Iran, nel tentativo di conciliare progresso tecnico e conservatorismo culturale e sociale. Gli studenti coranici possono infatti apparire ‘arcaici’ per la loro mentalità, ma autoscontro e gelati (vedi le foto che circolano sul Web) non sono gli unici frutti del Progresso a cui ambiscono.

Nel nuovo contesto, come occidentali disponiamo di varie forme di pressione per sostenere i gruppi a rischio, se davvero ne abbiamo a cuore le sorti. In questo momento i talebani hanno interesse a mostrare una facciata vagamente presentabile e gli stessi cinesi, che pure in nome della ‘non ingerenza’ si fanno pochi scrupoli a mercanteggiare con alcuni dei peggiori tiranni al mondo, non possono legarsi ad atrocità troppo in vista. Mantenendo alta l’attenzione internazionale, si possono ottenere dei risultati, quantomeno contenere l’entità della repressione.

Altrimenti, se non riusciamo a sortire nulla di costruttivo o peggio ancora rischiamo di combinare nuovi disastri, lottiamo piuttosto anima e corpo per fermare l’escalation del riscaldamento globale. Se non altro faremo comunque del bene a tutti, afghani compresi.

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