Decrescendo & decostruendo / Stefano Feltri e la decrescita totalitaria

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Stefano Feltri, responsabile della redazione economica de Il Fatto Quotidiano, è un giovane giornalista brillante e coraggioso, autore di inchieste scottanti che hanno imbarazzato i vertici dell’economia e della politica italiana. Purtroppo, quando sente parlare di decrescita sembra diventare un altro e non ragionare più. Per la rubrica ‘Decrescendo & decostruendo’, consapevole di non fare una buona opera nei confronti dei lettori di DFSN, vi propongo quello che di fatto è il suo peggior articolo in assoluto.

Come al solito tra parentesi in corsivo i miei commenti al testo.

La decrescita totalitaria – Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 17 febbraio 2012

Si parla parecchio di decrescita in questo periodo e forse è comprensibile, visto che il Pil scende un po’ ovunque e qualunque teoria che sostenga che “meno è meglio” viene vista con un interesse.

(Non c’è nulla da fare: la decrescita deve per forza essere una ripicca o una rassegnazione per un’economia che non cresce più… non è possibile che almeno qualcuno ci arrivi perché preoccupato da questioni come l’esaurimento delle materie prime, il degrado ecologico, i cambiamenti climatici? Tutte questioni, ci permetteremmo di aggiungere, forse un filo più importanti del Pil!)

Ho vinto la mia ritrosia e ho letto un po’ di cose. L’idea che mi sono fatto è che la decrescita oscilla tra due poli: quello del banale buon senso e la deriva totalitaria.(Addirittura! Pier Paolo Pasolini chiamava la società dei consumi “il nuovo fascismo” per l’omologazione e l’aculturazione che provocava dietro l’apparenza spensierata ed edonistica, un’impresa non riuscita neppure al fascismo del ventennio secondo lo scrittore. Vediamo come Feltri, al contrario, ci dimostrerà che è la decrescita a causare questa omologazione).

La banalità, per quanto di buon senso, è riassunta nell’articolo di Maurizio Pallante sul Fatto di oggi. Pallante non è un economista, stando a Wikipedia è laureato in lettere, quindi non cita dati o ricerche a sostegno delle sue tesi.

(A parte il fatto che Pallante ha scritto libri molto particolareggiati, io farei poco lo schizzinoso: mi sembra che gli economisti ‘doc’ abbiano già causato abbastanza danni, specialmente quelli che si sono laureati alla facoltà d’Economia di Chicago e magari sono stati insigniti pure del Nobel – ma anche la Bocconi dove si è laureato Feltri non scherza. Comunque, giusto per la cronaca, un economista di primo piano come Carlo Azeglio Ciampi è laureato in Lettere e Giurisprudenza…)

Che però mi sembrano comunque convincenti, anche se non certo originali: meglio favorire le ristrutturazioni edilizie che fanno risparmiare energia invece che cementificare ancora l’Italia, riciclare invece che consumare risorse naturali, produrre prodotti che si vendono invece che quelli che restano invenduti. Come dargli torto? Tra l’altro tutte queste politiche, se ben applicate, possono contribuire a far salire il Pil, almeno nel lungo periodo, senza per questo ridurre il reddito disponibile ai cittadini. Altro che decrescita, al massimo crescita sostenibile.

(Se coibento efficacemente degli edifici, all’inizio le opere di ristrutturazione alzano il Pil, ma poi la minor richiesta di energia per il riscaldamento alla lunga lo fa calare. Così come si critica la ‘crescita per la crescita’, non si cerca la ‘decrescita per la decrescita’! Tutti gli investimenti che permettono, a parità di prestazione, di risparmiare il prelievo di energia e risorse sono assolutamente ben visti).

Certo, se fossi un ministro non assumerei Pallante come consulente se prima non mi stima l’impatto sul Pil e sull’occupazione delle sue idee, ma questo è un altro discorso.

(Per te Feltri è un altro discorso! Invece questo è proprio il nocciolo della questione, un sistema economico che impedisce l’applicazione di misure di ‘buon senso’ perché si rivelano negative per l’economia e il lavoro!)

Poi c’è il grande teorico della decrescita, il francese Serge Latouche. Ho letto il suo ultimo libro, “Per un’abbondanza frugale” (Bollati Boringhieri) e l’ho trovato, devo dire, vagamente inquietante. Tutto il volume è una risposta ai critici della decrescita e risulta assai poco convincente. In un passaggio Latouche dice che se tutti consumassimo come gli abitanti del Burkina Faso “ci sarebbe ancora un ampio margine di manovra”. E “si potrebbe arrivare fino a 23 miliardi” di abitanti senza che il pianeta collassi. Alzi la mano chi vuole vivere come in Burkina Faso.

(Se Feltri ha realmente letto il libro, allora ‘inquietante’ è il suo grado di comprensione del testo! Finiamola una buona volta di prendere delle considerazioni, estrapolarle dal contesto e denunciare la decrescita come un’aspirazione al primitivismo. In quel passo del libro, Latouche contestava le teorie neo-malthusiane che vogliono ridurre le problematiche del pianeta alla sovrapopolazione; un sistema molto comodo per gli occidentali, perché scarica ogni responsabilità sui popoli asiatici e africani che presentano un saldo demografico positivo.

L’impatto dell’umanità sull’ambiente si misura secondo questa formula:

I= P x A x T

Dove P sta per popolazione, A per reddito, T per impatto della tecnologia. I neo-malthusiani vogliono mantenere inalterato A e T, intervenendo soltanto sul fattore P. Latouche replica  che è sbagliato ridurre tutto alla popolazione, perché questo metodo metterebbe in croce un paese ad alta natalità come il Burkina Faso; ma se tutto il mondo adottasse lo stile di vita del paese africano, allora ci sarebbero ampi margini di manovra. Viceversa, adottando uno stile di vita statunitense, non ci sarebbe spazio per più di un miliardo di individui. Non è certo l’auspicio a una popolazione di 23 miliardi di persone o a diventare tutti il Burkina Faso!

Comunque l’illazione di Feltri si basa tutta su di una lettura errata o mistificata – per non dire in malafede. Propongo il brano del testo del famoso riferimento al Burkina Faso e lascio liberi i nostri lettori di decidere autonomamente: “Siamo già sovrappopolati? Sicuramente, se tutti dovessero consumare quanto uno statunitense medio. Ma, al contrario, la dieta di base del burkinabé ci darebbe ancora un ampio margine di manovra. Mentre nel primo caso la popolazione dovrebbe ridursi fino a raggiungere 1 miliardo di individui, nel secondo potrebbe arrivare fino a 23 miliardi! Tuttavia, il naturalista Jean Dorst diceva con umorismo che era comunque più gradevole non essere costretti a mangiare in piedi!”.

Per quanto mi riguarda, consiglierei a Latouche di evitare nei suoi scritti e dibattiti torni provocatori e/o ironici perché evidentemente non sono all’altezza del grado di comprensione dei suoi critici…)

Pochi. Certo, la Terra ringrazierebbe. Ma siamo in democrazia, chi lo decide di decrescere? E soprattutto: si può dissentire o si viene costretti a decrescere?

(Come vedremo, Feltri ha una strana concezione della democrazia: in molti articoli ha contestato il neoliberismo, ma di fatto si muove sulla stessa linea ideologica. Secondo i suoi ragionamenti, se voglio espandere la mia casa ho il diritto ‘democratico’ di farlo, anche se voglio ampliarla ai danni del mio vicino! La libertà di crescere finisce semplicemente dove inizia il diritto di sopravvivenza degli altri! Invece no, bisogna continuare a crescere anche se ciò danneggia mortalmente altre persone… questa non mi sembra affatto democrazia, anzi, direi proprio che è totalitarismo! Mi ricorda un po’ la teoria dello ‘spazio vitale’ di uno strano omettino con i baffi…)

E se io voglio farmi la doccia tutti giorni invece che una volta a settimana? La polizia segreta mi entra in bagno?

(Beh, se in qualsiasi stato democratico e liberale c’è un’emergenza idrica e viene disposto il razionamento dell’acqua – capita sempre più di frequente non solo in USA o Australia, ma anche nell’Europa mediterranea – e tu provi ugualmente a forzare i limiti… sì Feltri, è molto probabile che la polizia ti faccia una visita a casa, e non per sentirti cantare sotto la doccia)

Sto esagerando (‘delirando’ mi sembra più adatto), ma il punto è chiaro: se si intende la decrescita come una politica economica e non come una somma di scelte libere e individuali, si degenera nello stato totalitario.

(Qui invece condivido al 100%: se non prendiamo coscienza come singoli cittadini dei limiti al consumo e non sappiamo apprezzare la libertà e l’autonomia che il riconoscimento di tali limiti ci può offrire, si degenera nel fascismo ecologico. Ottima intuizione di Feltri che però, purtroppo, vanifica totalmente con l’asserzione successiva)

Le scelte di consumo, nel mondo occidentale, sono libere.

(Già, il problema è che non sono libere fuori dall’Occidente perché bisogna rendere l’Occidente libero di consumare a piacimento!)

Deciderle dall’alto è possibile, ma non in una situazione di libera scelta. Questo non significa un bivio netto tra laissez faire selvaggio e totalitarismo sovietico. Ma che i consumi si possono influenzare con le tasse, gli sgravi fiscali, le politiche industriali.

(Ecco che il giornalista rovina tutto proponendo come soluzione l’eteroregolazione dall’alto da parte dello Stato, invece di cittadini consapevoli. Tra l’altro, puntando principalmente sulla leva fiscale, i più ricchi potranno permettersi di consumare merci più dannose o protrarre comportamenti poco virtuosi, aumentando ulteriormente la disparità sociale)

Possibilmente per migliorare il benessere (non necessariamente i consumi) di tutti. E non per ridurlo.

(Ovviamente benessere e consumo sono la stessa cosa!)

Scrive Latouche: “La decrescita è un progetto politico di sinistra, perché si fonda su una critica radicale del liberalismo, si ricollega, denunciando l’industrialismo, all’ispirazione originaria del socialismo e mette in discussione il capitalismo secondo la più stretta ortodossia marxista”. A parte la naturale diffidenza che deve suscitare l’abuso di “ismi”, è chiara la matrice culturale. E, come sosteneva Norberto Bobbio in una famosa polemica (nel libro “Quale socialismo?”, da poco ripubblicato), il marxismo non è mai riuscito a elaborare una teoria dello Stato.

(L’unica teoria dello Stato di fatto l’ha realizzata Thomas Hobbes… ma cosa c’entra tutto questo?)

Men che meno della democrazia. E, in fondo, non ha mai prodotto un sistema sostenibile.

(Perché, il capitalismo per caso sì? Ci fai un esempio di sistema sostenibile? Perché per adesso abbiamo solo il tanto disprezzato Burkina Faso… Non so, forse io e Feltri abbiamo edizioni differenti del libro di Latouche, perché nella mia c’è scritto: “Paradossalmente, si potrebbe addirittura presentare la decrescita come un progetto autenticamente marxista: il progetto che il marxismo (e forse Marx stesso) ha tradito”; parole che dimostrano in modo inequivocabile l’assenza di qualsiasi riferimento al socialismo reale)

Lo stesso Latouche finisce per ammettere che il suo modello è poco più di un esercizio intellettuale, lo fa in un box del libro dal titolo “la transizione”, dedicato al cruciale tema di come passare dalla società attuale a quella della “abbondanza frugale”. Dice Latouche che ci sarebbero “enormi problemi di riconversione dell’apparato produttivo”, del tipo “trasformare le industrie automobilistiche in fabbriche di cogeneratori energetici” (chissà se a parità di occupazione). E tutto questo, ovviamente, con una “ridefinizione del lavoro e l’eliminazione, quanto meno, dei suoi aspetti penosi, in attesa di una sua abolizione”. Amen.

(Latouche, a differenza di come viene spesso dipinto dai detrattori, è una persona realista consapevole delle enormi difficoltà per riconvertire la società industriale. Feltri invece fa parte di quella numerosa schiera che, non sapendo immaginare un mondo diverso, pensa che la catastrofe sia inevitabile – sempre se ha coscienza del problema, e non pare il caso del giornalista del Fatto. Quindi andiamo avanti con gli stessi criteri sull’economia e sull’occupazione e poi… amen, ma nel vero senso del termine!)

Credo bastino questi esempi a dimostrare che le teorie della decrescita sono o di scarsa utilità o pericolose e per fortuna non vengono prese troppo sul serio, almeno nella versione di Latouche.

(Per fortuna vengono invece prese sul serio le teorie che stanno portando al surriscaldamento climatico, alle estinzioni di massa, alle creazioni di ‘fabbriche del suicidio’ come quelle cinesi!)

Non ci sono idee facili per uscire da questa crisi sulle cui cause, comunque, i marxisti come Latouche un po’ di ragione ce l’hanno: non è tutta colpa della finanza, i debiti sono serviti a mantenere un livello di consumi non sostenibile nel lungo periodo.

(Si noti che per Feltri la ‘crisi’ è unicamente la stagnazione dell’economia. Siccome tutte le persone di media cultura hanno oramai coscienza del dramma ecologico che stiamo vivendo, è difficile che Feltri ne sia totalmente all’oscuro: tuttavia, se affrontasse l’argomento, non potrebbe più fare tanta ironia.

All’inizio dell’articolo, il giornalista ha ammesso di aver vinto la propria ritrosia ad affrontare il tema della decrescita, cosa perfettamente comprensibile. Per uno come lui, laureato alla Bocconi e imbevuto di principi secondo cui l’economia politica è fatta di ‘leggi’ inviolabili – di cui la crescita è il dogma centrale – e il consumo ad libitum è un diritto umano fondamentale, la decrescita rappresenta un brusco ritorno alla realtà dalle astrazioni e i massimi sistemi. A quel punto o cerchi di adattare la teoria economica alla realtà – come hanno fatto Nicholas Georgescu-Roegen, Mauro Bonaiuti e, in misura diversa, Herman Daly e Tim Jackson – oppure ti rifugi in un asilo mentale, mistificando la decrescita in una forma di auto-convincimento estremo. Inutile dire quale delle due strade abbia scelto Feltri)

Ma diventare tutti come il Burkina Faso non mi sembra una via d’uscita allettante.

(Anche perché insistendo con la crescita per la crescita il Burkina Faso starà anche peggio di adesso! E non sarà il solo…)

(Immagine tratta da Wikimedia Commons personalizzata)

8 Commenti

  1. A me, in verità, il termine “Decrescita” pare inadatto.
    Inadatto perchè può ingenerare equivoci.
    Non a caso a “Decrescita” è spesso associata l’idea di “deprivazione”.
    Dunque, personalmente, preferisco chiamarla crescita “altra”.
    Feltri, nei suoi ragionamenti non prende in considerazione alcuni aspetti dello sviluppo non certo trascurabili.
    Il primo aspetto riguarda le classi dirigenti e il sistema col quale sono state prese le decisioni economico-finanziarie negli anni della Repubblica ( tanto per non andare troppo indietro nel tempo).
    Tali decisioni sono state caratterizzate da un centralismo decisionista che ha mortificato il poteri e il ruolo degli Enti Locali, delle energie presenti nei territori.
    Le decisioni sono sempre arrivate dall’alto e hanno corrisposto alla saldatura degli interessi di potenti gruppi economici (FIAT in testa) e una certa visione confessionale della politica.
    Nonostante i proclami di laicità dello Stato, la cultura della Rerum Novarum di Leone XIII ha permeato, e di molto, l’idea dello sviluppo in Italia.

    Il passaggio dell’economia italiana da agricola ad agricolo-industriale e poi industriale-agricolo non è certo stato casuale.
    Feltri dovrebbe rileggersi i numeri dell’ISTAT circa gli occupati in agricoltura fino agli anni ’60 e valutare il trend fino ai giorni nostri.
    Nel 1982 ( fonte : ISTAT) gli ettari di terreno coltivati erano circa 22 milioni. Nel 2010 sono divenuti 17 milioni.
    Nel 1982 le aziende agricole erano oltre 3 milioni nel 2010 1,6 milioni: circa la metà.
    Inoltre, e questo forse Feltri non lo sa, la desertificazione avanza. Non solo è pauroso il consumo di suolo per via della cementificazione; è altrettanto paurosa l’erosione, la perdita di fertilità, l’inaridimento dovuto alle arature profonde, all’eccessivo sfruttamento, all’uso massiccio di ammendanti e diserbanti, alla distruzione della fauna edafica e della componente umica.

    A questo punto mi viene da chiedere al giovane e brillante Feltri se uno sviluppo “altro” sarebbe stato possibile o, rovesciando i termini della questione, se la meccanizzazione in agricoltura, la massiccia esplusione di manodopera fossero eventi inevitabili.
    Questo mi pare il nocciolo della questione.
    Feltri, e non solo lui, potrebbe rispondere che, tutto sommato, la redditività è aumentata, quasi duplicata e che il costo per unità prodotta si è drasticamente ridotto; consentendo in questo modo che si eliminasse la denutrizione e che quasi tutta la popolazione avesse cibo garantito.

    Ma siamo sicuri che una economia basata sul consumo di prossimità, sulla piccola e media azienda contadina, sulle coltivazioni biologiche rispettose del suolo e dell’ambiente non avrebbero potuto ugualmente sfamare la popolazione senza la capitalizzazione della terra e la concentrazione nel latifondo?

    I contadini, da sempre, soprattutto i piccoli proprietari terrieri ( le vicende bracciantili sono altra cosa) non hanno mai sofferto la fame e, pure conducendo una vita assai sobria, non hanno mai avuto una qualità della vita scadente.
    Per contro il cibo di massa, sicuramente aumentato in quantità ha perso in biodiversità e nelle qualità organolettiche.
    Peraltro la concentrazione nelle mani di pochi del mercato agricolo ha fatto sì che si creassero filiere “lunghe” con insopportabili mediazioni che si sono tradotte in un aggravio dei prezzi al consumo e compensi da miseria ai produttori.
    Per cui si è arrivati alla situazione attuale, dove molti agricoltori, vista la bassissima remunerazione del loro lavoro, abbandonano il mestiere.

    Feltri dovrebbe porre piu’ attenzione a questi aspetti che, a ben guardare, sono le ragioni profonde della crisi attuale.
    Il dirigismo statalista, le idee megalomani di fare dell’Italia un competitor della Germania ha generato mostri, distruggendo, parimenti, la vocazionalità peculiare dei territori.

    Una vera democrazia economica, partecipata dal bass, non avrebbe mai permesso uno sviluppo così distorto.
    Il centralismo ha considerato le diversità come iatture, come “zeppe” sulla via della crescita.
    In realtà la mortificazione dei particolarismi, associata ai dirigismi, ha distrutto il tessuto connettivo del Paese.

    Chi oggi parla di “crescita” non sa bene cosa dice e, in definitiva, non sa guardare oltre al proprio naso e vieppiu’ non ha dimestichezza coi modelli econometrici.
    Da buon bocconiano Feltri dovrebbe conoscere l’importanza dell’analisi fattoriale e dell’analisi della varianza.
    Analisi del tutto trascurate o colpevolmente sottovalutate; perchè i ragionamenti economici sono sempre stati a “breve” e in ossequio alla logica del profitto oltre che della convenienza politica.

    Se Feltri vuole criticare la Decrescita è liberissimo di farlo ma ha il dovere di mettere un pò piu’ di cultura nei suoi ragionamenti e, con l’onestà intellettuale che gli va riconosciuta, deve compiere una attenta disamina delle ragioni storiche, culturali economiche e politiche che hanno condotto all’attuale disastro.
    Solo dopo che avrà colto il bandolo della matassa e capito da dove origina la crisi potrà, a buon diritto, deprecare la la decrescita e irridere chi la sostiene.

  2. Grazie Igor per la “lettura” dell’articolo di Stefano Feltri. Ci sarebbero tanti cose da dire su ogni punto emerso ma qui ho solo poche righe e voglio solo dire che le parole sono (purtroppo?) importanti ed evocano emozioni, immagini, associazioni e cose che possono andare molto al di là delle originali intenzioni di chi le usa. Penso sia sfortunato l’uso della parola decrescita per aprire un ragionamento alternativo sull’attuale modello di sviluppo egemone sul pianeta. Il problema è che continuando ad usarlo, continuando a difendere etichette e definizioni, chi lo fa deve impiegare tanta energia, intelligenza e tempo al solo fine di continuare ad usare delle etichette. Cosi’ facendo non si riesce ad prire un varco nell’ascoltatore scettico o nella pubblica opininone e non si andrà mai a parlare dei “fatti” della decrescita di cui si vuole davvero discutere e che penso molti tra quelli che non vogliono parlare di decrescita sarebbero disponibili a fare. Quello che voglio dire è che usando gli -ismi di cui sopra si rischia di “buttare in caciara politca” un problema che riguarda tutti e che non tutti hanno ancora compreso a fondo e che, forse, se presentati diversamente sarebbero piu’ disponibili ed aperti al confronto.

    • Vedo che entrambi i commentatori, pur aderendo alle idee della decrescita, storcono un po’ il naso per il termine ‘decrescita’ (è la stessa posizione di Guido Viale o Piero Bevialacqua), e vorrei quindi spiegare perché lo ritengo invece quanto mai adeguato.
      Innanzitutto proprio perché si vuole creare un progetto davvero alternativo, e questo termine viene sentito quasi come una bestemmia da chiunque sia vagamente legato alle concezioni dominanti.
      E’ oramai, va detto, è diventata una parola abituale, che anche per questione di ‘marketing’ non cambierei. Ma c’è una ragione più profonda.
      Ho fatto caso che gli articoli che ho scelto per ‘decrescendo & decostruendo’ risalgono a due-tre anni fa (questo è di Feltri è del 2012) quando qualunque illazioni primitivista riguardo la decrescita poteva ottenere plauso tra gli ignoranti della questione… oggi le cose mi sembrano almeno un pochino cambiate.

  3. Vorrei motivare perchè preferisco chiamare la decrescita crescita “altra”.
    Credo siamo tutti d’accordo su una verità evidente: le risorse non sono infinite e, prima o poi, si esauriranno.
    Dunque non si può avere una crescita infinita partendo da qualcosa che, per se stesso, ha natura finita.
    Ma, affermato questo corollario, si tratta di capire cosa stia “dentro” all’alternativa alla crescita.

    Credo nessuno abbia in mente che la decrescita debba essere un processo guidato da un “Principe”, sia esso persona individuale o collettiva.
    Di dittatori con “buone” intenzioni ne abbiamo avuti tanti; così come, nella storia recente, vi sono stati dirigismi e totalitarismi ( ricordiamo i piani NEP sovietici) che, dall’alto della loro autorità, decidevano cosa, come e quando produrre.

    Dunque, stante anche la letteratura esistente, si può ritenere che la decrescita debba essere un fatto che parta da azioni volontarie, da una maturazione collettiva, dalla consapevolezza che il cambiamento possa anche essere “felice” e restituire umanità all’uomo.
    La decrescita che, a dispetto del prefisso “de”, aggiunga molto piu’ di quanto tolga: in termini di valori e rispetto per la persona umana, oltre che per la collettività.

    Ma, dicendo questo, siamo ancora ai principi, alle enunciazioni generiche sulle quali, bene o male, tutti ci possiamo ritrovare.
    Il passo successivo è quello di riempire di contenuti la parola “decrescita”.
    Se , dunque, si escludono le forme di dirigismo e misure imposte da una autorità superiore, tutto afferisce alla sfera dei comportamenti individuali.
    La mia esperienza di statistico mi porta a dire che la somma di tante individualità pluridirezionate ha risultante nulla; per cui la somma di tante decrescite, ciascuna frutto di sensibilità individuali rischia di non spostare di un millimetro la questione.
    La ragione è evidente: senza metodo, senza costrutto, senza direzioni di marcia, ciascuno esercita il libero arbitrio.

    Personalmente sono convinto, anche perchè vivo la mia decrescita personale, che per decrescere si debba passare dai consumi agli investimenti.
    Serve cioè trasferire risorse dalla spesa di parte corrente all’acquisto di attrezzature che consentano il “fai da te”.
    Se acquisto una “combinata” per falegnameria, potrò farmi da solo tutte le suppellettili che servono in casa.
    Se acquisto una trafila, potrò farmi da solo gli spaghetti o i maccheroni.
    Se realizzo delle arnie potrò avere il miele.
    Se mi attrezzo con una tappatrice e un po’ dibottiglie potrò acquistare il vino dal contadino e imbottigliarmelo da me.
    Se coltivo l’orto non avrò bisogno di acquistare frutta e verdura.
    Poi, dove non arrivo personalmente, potrà sempre valere lo scambio con altri che operano come me, in quest’ottica.
    In questo modo ridurrò drasticamente la spesa famigliare e darò una mano a fare decrescere il PIL.
    Ma queste sono scelte “mie” che sicuramente funzionano perchè ne ho la controprova.
    Ma non tutti sono disposti a sostituire con prestazioni personali quello che fino a ieri acquistavano col denaro; anche se ne avrebbero bisogno: visto che la crisi ha creato disoccupazione e deprivazione.

    Il consumismo ha corrotto le coscienze, per cui l’idea di uan crescita diversa, non certo basata sul “tantoavere”, non solo non è praticata ma è anche invisa; perchè, nell’immaginario collettivo, all’idea di decrescita si associa quella di povertà, di ritorno a condizioni miserabili.
    Io non ho alcuna fiducia in un cambiamento che muova dalle coscienze individuali.
    Anche solo pensarlo si è fuori dalla realtà.
    Guardiamoci intorno. Guardiamo questa società mortificata, piegata su se stessa, mucillaginosa come Blob, rissosa, dedita alla rissa e alla verbosità.
    Genny a’ Carogna non è un caso isolato. E’ semmai la punta dell’iceberg di un malessere figlio della crisi economica.

    Non penso che bastino gli appelli al buon senso per cambiare metodi e indirizzi collettivi.
    Diciamoci la verità: oggi siamo lo 0,99% e sia destinati a rimanere tali se non sarà la politica ( si ma quale ?) in grado di incidere sulle scelte generali.
    Ecco allora perchè parlo di crescita “altra”: un qualche cosa che provenga dalle classi dirigenti e trovi terreno fertile in un nuovo localismo organizzato e nella cittadinanza attiva.
    Si tratterebbe comunque di processi collettivi, dove la spontaneità può essere una componente importante ma non esclusiva.
    Nello stesso tempo, le grandi direttrici di marcia verrebbero da un disegno organico e non sporadico.
    Da una visione “altra” , appunto, dello sviluppo.

    Insomma, e concludo, l’Ipotesi Nulla ( la crescita) ha solo un grado di libertà. L’Ipotesi Alternativa( la decrescita) ne ha N-1.
    Questo è il punto.

    • Condivido praticamente tutto. Penso che una delle caratteristiche di DFSN – non credo di parlarci addosso se lo dico – è proprio quella di cercare di andare al di là della dimensione personale proprio per pensare alle condizioni politiche dove non solo possa attuarsi una prassi di sostenibilità ambientale, ma anche una società più giusta, umana e democratica – con tutti i limiti che ovviamente abbiamo. Il Manifesto per un’Europa decrescente è un passo in tal senso.
      Si tratta di far capire che esiste il sottosviluppo, ma anche il SOVRAsviluppo, e che questo non crea solo danni ambientali ma limitazioni importanti della libertà umana e non solo (penso alle patologie da sovrasviluppo, come il cancro).
      La decrescita è un contropotere sociale da opporre all’ideologia consumista, il progetto politico da costruirci sopra è da fare, direi che la questione del nome si riferisca soprattutto a quello: la società dei beni comuni è secondo me un ottimo terreno di lavoro.
      E’ curioso perché solo un paio di settimane fa ho avuto un confronto (finito male forse anche per qualche mio eccesso polemico, cosa che mi dispiace) con una persona che portava l’opinione esattamente opposta alla tua: basta ‘teoria’, ‘facciamo’ la decrescita nella pratica e amen. Penso che queste due anime – in mezzo alle quali ci sono parecchie sfumature – finiranno in qualche modo per confliggere, e anche qui DFSN nel suo piccolo sta lanciando dei sassi nello stagno… poi ognuno sarà libero di credere e agire come pare, spero solo che la decrescita gradualmente venga accostata solamente a chi allarga la questione al di là dell’autoproduzione e delle pratiche virtuose.
      Solo un paio di osservazioni permettimi: penso che qualunque ‘nome’ si voglia ipotizzare NON debba avere all’interno i termini ‘crescita’ e ‘sviluppo’ (sono oramai irrimediabilmente corrotti); e ok, siamo lo 0,99%, però penso che il 99,1% non sia composto da imbecilli bensì da persone in gran parte alienate, che in contesti alienanti danno vita a situazioni alienate. Per cui hai assistito nel 2011 a un popolo italiano che, in piena era berlusconiana (ritengo il sistema politico rappresentativo italiano quanto mai alienante) è andato a votare in massa contro la privatizzazione dell’acqua, il nucleare e il legittimo impedimento.
      Noi siamo lo 0,99% che per priviliegio sociale o culturale o familiare riesce a sfuggire all’iper-consumismo, ma se si offrono possibilità alternative penso che si possa liberare dal giogo un numero decisamente maggiore.

  4. Igor, superfluo dire che condivido ogni parola dei tuoi corsivi di commento all’articolo di Feltri. C’è però un problema. Il Fatto Quotidiano ha mediamente 484.000 lettori (dati Audipress 16 sett. 2013) e il sito della decrescita quanti ne ha ? Non ho sottomano l’ultimo report che mi è stato mandato ma sappiamo entrambi che un confronto non è nemmeno pensabile. Cosa voglio dire ? Che la supponenza e l’ignoranza di Feltri (non me ne voglia, spesso l’ ho ascoltato con attenzione dalla Gruber…) arrivano a bersaglio, mentre i tuoi corsivi no. E’ il tema della visibilità mediatica della Decrescita e, in seconda battuta, della strategia politica per…crescere (mi si perdoni il bisticcio). Su questo ho provato a riflettere ed ho postato un articolo che a breve dovrebbe apparire.
    Sono moderatamente fiducioso sulla possibilità che i temi che ci stanno a cuore conquistino nuovi appassionati sostenitori, ma sarebbe opportuno, a mio modo di vedere, mobilitarsi perché questo avvenga.
    Infine sul termine Decrescita sono assolutamente d’accordo con te. Non mi preoccuperei dello sgomento che può creare di primo impatto. Anzi io trovo che la sfumatura provocatoria che lo caratterizza sia un’arma vincente.

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