Decrescita e democrazia

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democrazia_testataSi parla molto di decrescita e sostenibilità, di decrescita e rivoluzione umana, mentre il tema decrescita e democrazia viene in larga parte ignorato. I detrattori della decrescita sicuramente insinuerebbero che ciò si deve al carattere intrinsecamente antidemocratico della decrescita (addirittura ‘totalitaria’, secondo il giornalista del Fatto Mattia Feltri), alla limitazione del ‘diritto al consumo’ che, evidentemente, in una società di mercato è ritenuto il valore fondamentale sopra ogni altra libertà.

Io penso invece che, in questo momento di grave emergenza politica, la decrescita rappresenti forse l’ultima speranza per un avvenire democratico. Ma andiamo con ordine.

La democrazia rappresentativa liberale, in linea teorica, si basa sulla delega del cittadino a un rappresentante regolarmente eletto, che si faccia portatore delle sue istanze nelle sedi competenti. Nonostante i limiti di questo sistema, in una società dove i partiti politici godono di una forte partecipazione popolare e sono permeabili alle istanze provenienti dalla base – pressapoco la situazione italiana ed europea subito dopo la seconda guerra mondiale – può rappresentare un compromesso dignitoso. Ora però la situazione è radicalmente mutata.

Oggigiorno i partiti, quando non sono creazioni personali di un determinato personaggio politico, sono controllati da ristrette oligarchie che spacciano trovate mediatiche e plebiscitarie (vedi le cosiddette primarie) come dialettica democratica. E quel che peggio, la delega non è più conferita dai cittadini ma da potentati economici e politici (grandi imprese, think-thank delle élite mondiali, istituzioni sovranazionali) mentre agli elettori rimane solo di legittimare con il voto popolare questi accordi semi-segreti, in modo che il politico di turno possa straparlare di ‘mandato democratico’, ‘legittimazione popolare’, ecc. per far tacere ogni polemica sul suo operato. Per evidenziare il carattere profondamente antidemocratico di questa situazione, farei notare che le ‘grandi intese di coesione nazionale’ appena raggiunte in Parlamento non hanno alcun riscontro nel paese reale, dove solo il 39% degli elettori ha votato PD, PDL e terzo polo (gli altri si sono astenuti o hanno votato diversamente) (1). Per tali ragioni, ci sono studiosi come Colin Crouch, che parla apertamente di post-democrazia – cioé di una democrazia solo formalmente rispettata in un contesto di potere largamente oligarchico – o come Paolo Gila, secondo cui vivremmo nell’epoca del capitalesimo, ossia un capitalismo che assume tratti sempre più aristocratici da assomigliare a un nuovo feudalesimo.

L’attività lobbystica della grande impresa tende a svuotare la rappresentatività elettorale di ogni valenza democratica, perché falsa alla radice il principio di uguaglianza: queste ‘persone giuridiche’ contano molto più delle ‘persone fisiche’ per cui, usando un’espressione alla moda, il motto ‘uno vale uno’ diventa pia illusione. La decrescita, limitando la sfera economica e rivalutando il locale come ambito privilegiato di discussione, rappresenta un potente argine a questi potentati (che in una società della decrescita faticherebbero a giustificare la loro stessa esistenza), nonché una riappropriazione dal basso della vita politica oltre che dell’autonomia individuale. Tuttavia, forse la sfida va molto oltre alla preservazione dello spirito liberale della rappresentatività e ci spinge a rivedere il  concetto stesso di democrazia.

Dobbiamo ad esempio perseguire la democrazia diretta, intendendola ben al di là di votazioni on line o di mani alzate in un’assemblea. Se il governo del paese rappresenta nella migliore delle ipotesi il 39% dei cittadini, si tratta di un governo di minoranza e come tale va trattato. Atti come la difesa della Val di Susa dagli scempi della TAV o le proteste contro il MUOS in Sicilia non sono più semplici dimostrazioni a protezione del territorio, ma veri e propri atti di rivendicazione di una sovranità negata. Non è solo disobbedienza civile, si tratta di casi pratici di quel ‘diritto alla resistenza’ teorizzato da molti filofosi illuministi e previsto in diverse costituzioni liberali.

E si potrebbe andare anche oltre, chiedendo che una società democratica sia tale in tutti i suoi aspetti, non solo quelli legati alle istituzioni politiche ma anche quelli correlati alla sfera economica: da qui prende spunto il concetto di democrazia partecipativa, cardine della teoria della società dei beni comuni – il discorso si fa più articolato e ne tratterò in successivi articoli. Per chiudere voglio sottolineare come la riappropriazione della politica dal basso attraverso una prassi democratica e la svolta antropologica della decrescita passino inevitabilmente attraverso nuove forme di municipalismo, capaci di de-globalizzare politica ed economia. Se ciò non si verificherà, al massimo potremo bearci della nostra ‘illuminazione’ o ‘autocoscienza’ in una società autoritaria guidata da un potere sempre più autoreferenziale.

(1) Ovviamente si dà per scontato che gli elettori di PD e PDL gradiscano l’attuale situazione, cosa ben lungi dall’essere evidente. A titolo di esempio, alle elezioni regionali tenute in Friuli subito dopo la rielezione di Napolitano e la benedizione dell’accordo bipartisan, i partiti dell’attuale maggioranza hanno raccolto meno del 20% del consenso degli elettori.

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