Germania green&brown

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Quante volte sentiamo parlare della Germania come di una nazione seriamente impegnata nell’attuare politiche ambientaliste? Cercheremo di distinguere realtà e mito, in modo da trarre anche alcune considerazioni generali da astrarre dal caso preso in esame.

La facciata green

La parabola della Germania nell’ultimo trentennio è stata molto particolare, rendendola un caso unico o quasi nel panorama mondiale: siamo infatti in presenza di un paese che ha mantenuto una crescita economica sostenuta (intorno al 2% annuo, prestazione di rilievo per un paese a industrializzazione matura) riducendo allo stesso tempo le emissioni di CO2 e il consumo di energia.

Andameno PIL tedesco (fonte: Standard&Poors)

 

Se nel 1995, per ogni unità di energia consumata, si generavano 8 dollari di PIL, vent’anni dopo tale performance è migliorata del 50% (12 dollari): anche altri paesi europei vantano numeri simili, ma in Germania è significativo perché un settore energivoro come l’industria incide sul PIL per il 30% (di cui la manifattura costituisce ben il 23%), contro il 24% dell’Italia, il 20% della Francia e il 19% della Gran Bretagna, ad esempio. Tale miglioramento di efficienza ha permesso di abbandonare gradualmente il nucleare lasciando sostanzialmente invariata la quota da fonti fossili, fornendo solide basi per lo slancio di eolico e fotovoltaico, che nel 2015 sono stati capaci di produrre quasi 70 volte l’elettricità generata vent’anni prima, grazie a una crescita esponenziale della potenza installata.

I sostenitori dello sviluppo sostenibile terminerebbero qui la trattazione inneggiando al felice connubio tra ecologia ed economia nonché alla prosperità che ci aspetta grazie ai prodigi della ‘crescita verde’…

Potenzialità sprecate

Essendo invece una persona interessata ai limiti dello sviluppo, ho pensato di calcolare il risparmio che sarebbe stato possibile se, invece di ricercare la crescita, la Germania avesse deciso di mantenere un’economia stazionaria a partire dal 1995, quando era già una delle nazioni più avanzate del pianeta (nota bene: in vent’anni la popolazione tedesca è rimasta sostanzialmente stabile, fattore che rende ancora più sensato questo tipo di ragionamento). Salta fuori che si potevano risparmiare intorno ai 65 mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti), più o meno 755 TWh; a titolo di paragone, l’intera produzione elettrica da fossili e nucleari attualmente ammonta a circa 440 TWh. Anche potendo destinare solo il 20-25% di quel risparmio alla produzione di elettricità, sarebbe stato un passo concreto per ridurre considerevolmente l’uso di carbone e altre fossili.

Esternalità sociali

La Germania, notoriamente, è uno dei paesi europei che ha puntato maggiormente  sull’innovazione tecnologica, sovvenzionando abbondantemente ricerca e sviluppo: i risultati ottenuti in campo energetico sono sicuramente frutto di questi sforzi.

Spesa per ricerca e sviluppo (Fonte: Aspen Institute)

Tutto molto bello, ovviamente però i costi degli investimenti devono in qualche modo rientrare; non sorprende più di tanto, quindi, scoprire che i prezzi tedeschi dell’elettricità siano i più elevati in Europa insieme a quelli della Danimarca, altra grande sostenitrice delle rinnovabili.

Senza contare che la riconversione complessiva del sistema energetico ha comportato costi di cui le tariffe delle bollette sono solo la punta dell’iceberg. Come sono stati sostenuti? A questo punto è necessario un breve excursus storico.

La repubblica federale tedesca può (e deve) essere criticata per tantissimi aspetti, ma non si può negare che, una volta venuta meno l’onda lunga della crescita economica dei ‘trenta gloriosi’, non abbia progettato un serio percorso che fosse capace di conciliare il mantenimento dei privilegi delle élite con la necessità di prevenire sul nascere eccessive tensioni sociali dovute al persistere della stagnazione: il passo più importante in tal senso è avvenuto nel 1976, quando l’esecutivo socialdemocratico guidato da Helmut Schmidt ha varato una legge sulla cogestione aziendale che stabilisce la parità dei seggi fra azionisti e sindacato nei consigli di amministrazione delle imprese con più di 2000 dipendenti; da lì in poi i governi successivi, anche di centro-destra, hanno mantenuto l’impianto originario della legge senza particolari stravolgimenti.

Semplificando parecchio, il sindacato con questo accordo accetta di perseguire determinati obiettivi di crescita sacrificando eventualmente alcune tutele, a patto però che i lavoratori possano intervenire concretamente nelle strategie aziendali. I giudizi sulla cogestione sono contrastanti, indubbiamente ha permesso di contenere parzialmente l’offensiva  neoliberista contro il diritto del lavoro, dall’altro lato però ha creato una frattura enorme con i dipendenti delle piccole aziende del settore dei servizi, composte per lo più da manodopera scarsamente sindacalizzata e spesso di origine straniera, sottoposti a condizioni di precarietà  da non far invidia all’Italia o altri paesi che hanno patito maggiormente la grande crisi. Al di là delle opinioni personali, statistiche alla mano, l’aumento della produttività del lavoro è stato trattenuto in gran parte dalle imprese.

A tutto ciò si è ovviamente aggiunta la leadership della Germania all’interno della UE, che le ha permesso di imporre condizioni penalizzanti nei confronti dei partner europei e di consolidare il suo status dominante, in particolare per quanto concerne la difesa a oltranza del contestatissimo surplus commerciale.

In definitiva,  la riconversione del comparto energetico-produttivo iniziata negli anni Novanta – cercando di coniugare insieme competitività commerciale, contenimento del danno ecologico e interessi di classe – ha finito per riversare gli oneri soprattutto sui soggetti più deboli, in patria e fuori. Il capitalismo tedesco sarà pure ‘illuminato’ o ‘verde’, ma sempre capitalismo rimane.

A questo riguardo mi pare opportuno riportare un’importante osservazione di G.B. Zorzoli pubblicata su QualEnergia:

Nella situazione attuale, quando illustriamo ai non addetti ai lavori la necessità di cambiare il modello di sviluppo, puntando in tutti i settori sulle tecnologie e sui comportamenti “green”, senza accompagnare le proposte specifiche con indicazioni sugli strumenti richiesti per gestirne l’impatto economico e sociale, rischiamo di essere assimilati alle élite che non si preoccupano dei problemi della gente comune, e provochiamo negli interlocutori una reazione di rigetto.

Per evitare questo pericolo, esiste una sola medicina: alle proposte che portano alla riduzione delle emissioni climalteranti, vanno associate l’analisi del loro impatto e indicazioni su come gestirlo.

Il futuro: more brown than green?

Quando si parla di crescita economica continua, lo spettro di Jevons e del suo mefistofelico  paradosso volteggiano sui perfezionamenti tecnici alla maniera degli avvoltoi sulle carogne. Neppure la virtù teutonica può arginare i ritorni decrescenti e infatti lo sviluppo dell’efficienza, dopo quarant’anni di consistenti progressi, presenta margini sempre più esigui; e la classe dirigente tedesca sembra aver capito che il cammino ambientale (abbastanza) virtuoso fin qui condotto potrebbe non conciliarsi più adeguatamente con ulteriori ambizioni espansionistiche.

Fonte: ourfiniteworld

La neonata Grosse Koalition cristiano sociali+socialdemocratici guidata dall’inamovibile Angela Merkel pare intenzionata a posporre gli obiettivi sui tagli delle emissioni di gas serra relativi al 2020,  e  l’abbattimento di una chiesa a Immerath per allargare una miniera di lignite (malgrado le resistenze di Greenpeace e della popolazione locale) e la distruzione programmata di tre paesini ai confini con la Polonia per aumentare l’estrazione di carbone non sono sicuramente avvisaglie positive. Leggiamo come quest’ultima notizia sia stata riportata sul sito di RaiNews:

I turisti che vengono da queste parti non sono qui per Atterwasch, paesino a circa due ore di macchina da Berlino e a quattro chilometri dal confine polacco, né i vicini Kerkwitz e Grabko, 900 abitanti in tutto. Vecchi di secoli e sopravvissuti all’occupazione sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale, i tre villaggi saranno presto rasi al suolo per far posto a una miniera di lignite, l'”oro nero” della Germania. I pullman si fermano proprio davanti alla “voragine” di 88 km quadrati che una macchina scava per cinque giorni a settimana: è la più grande miniera a cielo aperto della Germania orientale. Gli abitanti resistono, ma il governo va avanti. Per realizzare l’Energiewende, la “transizione energetica”, che prevede l’eliminazione del nucleare entro il 2022, e investire in energie rinnovabili, serve il carbone per evitare black out. E il sacrificio dei tre paesi.

Dopo i dovuti complimenti al giornalista per aver scritto in poche righe un testo capace di eccitare fino all’orgasmo la propaganda filo-nuclearista e anti-rinnovabili, è il caso di ristabilire la verità contro la mistificazione più totale. Stando ai dati IEA più aggiornati, la Germania impiega oggigiorno meno combustibili fossili di quando il nucleare incideva maggiormente sul fabbisogno, avendo per giunta ridotto le importazioni e aumentato le esportazioni.

Insomma, la tesi “carbone necessario per sostituire il nucleare e sostenere le rinnovabili”, senza l’aggiunta di ulteriori precisazioni (di cui daremo conto tra poco) è una castroneria assoluta.

In realtà il governo tedesco, per giustificare la revisione deģli accordi sul clima, ha usato argomenti un po’ differenti, ossia, citando l’agenzia Reuter “strong economic growth and higher-than-expected immigration”.

Tirare in ballo l’immigrazione è decisamente buffo perché, se la Germania è una meta privilegiata, ciò avviene proprio in virtù della ‘forte crescita economica’ altrimenti, non essendo una nazione geograficamente esposta come l’Italia, subirebbe in modo più limitato il fenomeno; inoltre, gran parte dei flussi provenienti dall’Europa orientale si devono alle politiche scellerate sostenute anche da Berlino dopo il crollo del comunismo, per cui si sta in gran parte piangendo sul latte versato. Non è facile trovare numeri precisi sul fenomeno migratorio e capirne gli impatti energetici, tuttavia basta fare due conti per sentire gran puzza di fuffa. Anche immaginando un’emergenza oltre i limiti dell’assurdo, ad esempio  che si materializzino dal nulla 5 milioni di persone e che queste da subito adottino il consumo di elettricità medio di un cittadino tedesco (circa 7 MWh annui, un valore gonfiatissimo in quanto i migranti appartengono ai ceti a basso reddito, quindi con consumi contenuti), basterebbe dimezzare le esportazioni per arginare la situazione; se, al colmo della sventura, sparisse in un sol colpo l’apporto del nucleare, azzerando le esportazioni e incrementando la produzione del 2% circa si metterebbero le cose a posto (almeno sul piano elettrico). Quindi, anche immaginando un’ondata migratoria di proporzioni bibliche, ci sarebbero ancora ampi margini per contrastare il ‘blackout’ prima di radere al suolo interi villaggi. Questi sono stati evidentemente sacrificati sull’altare di ben altro Moloch, divinità incontrastata della teologia economica.

Fonti Documentarie (quando non linkate nel testo)

Dati economici

  • The Economist, Il mondo in cifre 2017

Dati relativi all’energia:

Informazioni relative all’economia tedesca:

 

2 Commenti

  1. Ciao Igor
    A un certo punto dici :”…se, invece di ricercare la crescita, la Germania avesse deciso di mantenere un’economia stazionaria a partire dal 1995,…”
    Penso che il problema sia tutto qua e che consista nel rispondere alla seguente domanda: con che cosa sostituire il valore culturale “crescita”?
    Questo valore è fondamentale nella personalità e nella cultura moderna (per la verità i valori fondamentali della cultura moderna arrivano a maturazione nella Bassa Mesopotamia nel sesto millennio B.F. (befor present).

    Donella Meadows in un suo articolo individua alcuni punti–leva, cioè alcuni punti su cui intervenire per modificare la realtà ed evitare i disastri a cui ci porterà la continua crescita da tutti invocata.
    Nella seguente citazione sono indicati i due punti leva più importanti su cui agire. (l’articolo completo è raggiungibile al seguente link http://ugobardi.blogspot.it/2012/11/punti-di-leva-dove-intervenire-in-un_25.html )
    “Si può dire che gli schemi siano più difficili da cambiare di qualunque altra cosa nel sistema e quindi questo punto dovrebbe essere più basso nella lista, non al secondo posto più alto. Ma non c’è niente di inevitabilmente fisico o costoso o anche lento nel processo di cambiamento del sistema. In un singolo individuo può avvenire in un millisecondo. Tutto ciò che richiede è un click nella mente, una caduta di barriere dagli occhi, un nuovo modo di vedere. Intere società sono un’altra cosa. Resistono alla sfide al loro schema più che a qualunque altra cosa. Le reazioni sociali alla sfida allo schema hanno contemplato crocifissioni, roghi al palo, campi di concentramento e arsenali nucleari.
    Quindi come si cambiano gli schemi? Thomas Khun che scrisse l’influente libro sui grandi cambiamenti di paradigma della scienza ha molto da dire a tal proposito [7]. In sintesi continuando ad indicare le anomalie e i fallimenti nel vecchio paradigma, continuando a parlare ampiamente e con sicurezza del nuovo, si sostituisce nelle persone il nuovo paradigma al posto della visibilità pubblica e del potere. Non si perde tempo con i reazionari; piuttosto si lavora con agenti di cambiamento attivo e con la grande quantità di gente moderata che è di larghe vedute.
    I sistemisti direbbero che si cambiano gli schemi modellando un sistema su un computer, che porta fuori dal sistema e forza a vederlo per intero. Lo possiamo dire perché i nostri paradigmi sono cambiati in questo modo.
    1. IL POTERE DI TRASCENDERE I PARADIGMI
    Tuttavia c’è un punto di leva ancora più grande del cambiare il paradigma. Che è mantenersi indipendenti nell’arena dei paradigmi, mantenersi flessibile, capire che nessun paradigma è “vero”, che tutti, incluso quello che dolcemente modella la tua visione del mondo, sono una comprensione tremendamente limitata di un immenso incredibile universo che è lontano dall’umana comprensione. È raggiungere il paradigma ad un livello viscerale comprendendo che il fatto che ci siano dei paradigmi è un paradigma e considerare l’intera consapevolezza incredibilmente divertente. E’ lasciarsi andare nella Non Conoscenza in quello che nel Buddismo viene detto illuminazione. La gente che va oltre i paradigmi (tutti noi) dà uno sguardo all’enorme possibilità che tutto ciò che pensa è certo di essere senza senso e pedala rapidamente nella direzione opposta. Certamente non c’è potere, controllo o comprensione, neanche una ragione per essere, ancora meno azione, nella nozione o esperienza che non c’è nessuna certezza in nessuna visione del mondo. Ma infatti tutti quelli che sono riusciti ad accarezzare quest’idea, per un momento o per una vita, l’hanno trovata essere la base per un radicale cambiamento interiore. Se nessun paradigma è giusto, si può scegliere quello che più aiuta nel raggiungimento del proprio obiettivo. Se non si ha idea di dove trovare un obiettivo, si può ascoltare l’universo (o darselo in nome della propria divinità preferita) e fare la sua volontà che è probabilmente meglio informata della nostra.
    È in questo spazio di controllo sui paradigmi che la gente toglie di mezzo le dipendenze, vive nella gioia costante, butta giù imperi, fonda religioni, si fa imprigionare o sparare, o scompare e ed ha impatti che durano per millenni.
    UN AVVERTIMENTO FINALE
    Da sublime a ridicolo, da illuminazione ad avvertimenti. C’è così tanto da dire per descrivere questa lista. È un tentativo e il suo ordine è sdrucciolevole. Ogni punto ha eccezioni che possono spostare su o giù l’ordine delle leve. Aver avuto la lista che pervadeva il mio subconscio per anni non mi ha trasformata in una Superdonna. Più grande è il punto di leva, più il sistema resisterà a cambiarlo – questa è la ragione per cui le società tendono a far sparire le creature veramente illuminate.
    I punti di leva magici non sono facilmente accessibili, anche se sappiamo dove sono e che direzione dargli. Non ci sono biglietti a basso prezzo per la conoscenza. Bisogna lavorare su ciò che significa analizzare rigorosamente un sistema o rigorosamente liberarsi dei propri paradigmi e gettarsi nell’umiltà del Non Sapere. Alla fine dei conti, sembra che il potere abbia meno a che fare con lo spingere i punti di leva che con lo strategico, profondo, pazzo lasciar andare.”

    Quelli appena indicati sono i due punti leva più importanti indicati da Donella Meadows per creare una realtà che eviti all’umanità la catastrofe che sembra sempre più imminente e che sempre più manda avvisaglie.
    Quello più importante (a cui bisogna aggiungere l’avvertimento finale con cui conclude l’articolo) dice che è molto importante andare oltre i paradigmi. Dice la Meadows che :” Se nessun paradigma è giusto, si può scegliere quello che più aiuta nel raggiungimento del proprio obiettivo. Se non si ha idea di dove trovare un obiettivo, si può ascoltare l’universo (o darselo in nome della propria divinità preferita) e fare la sua volontà che è probabilmente meglio informata della nostra.”
    Mi permetto ulteriormente di aggiungere che se non avremo assaggi consistenti della catastrofe climatico-ambientale, che sempre più manda avvisaglie, non ci decideremo ad ascoltare l’universo e a “farci agire” da altri valori!
    Ciao Igor e scusa per la lunghezza del commento

    • Ciao Armando e grazie per l’attenzione, come al solito consiglio che commenti così lunghi magari meritino di diventare dei veri e propri articoli di risposta che possano catturare maggior attenzione di un semplice commento. La questione su come si supera la cultura della crescita è ovviamente complessa ed elaborata, Donella Meadows da genio qual era è riuscita a elaborare una profonda visione d’insieme che ci è di grandissima utilità soprattutto perché – e questo direi che non entra nella testa di molta gente – dimostra che è necessario uno sforzo sinergico risultato dell’integrazione di strategie differenti. Io ad esempio mi accorgo di rientrare nella categoria “indicare le anomalie e i fallimenti nel vecchio paradigma”, raramente ho slanci propositivi su di una società futura della decrescira. Penso che il merito principale di Simone nell’aver fondato DFSN sia stato proprio quello di capire la necessità di integrare visioni differenti sullo stesso problema.

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