La cruda realtà di The Social Dilemma

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Forse The Social Dilemma, documentario diretto da Jeff Orlowski e trasmesso da Netflix, è davvero un prodotto “grossolano” (Anonima Cinefili), “che non analizza la questione ma si limita a girarci intorno” (Il Giornale), “sensazionalista” (comunicato di Facebook) o che esprime “un punto di vista bianco e liberal” (espressione alla moda per screditare qualsiasi cosa, impiegata soprattutto da chi rientra perfettamente in tale descrizione stereotipata).

Sta di fatto che, con tutti i limiti e le forzature del caso, The Social Dilemma descrive accuratamente la nuova struttura assunta dalla macchina della comunicazione con l’avvento dei social media. Abituati a più di un secolo di broadcasting radio-televisivo parzialmente temperato dalla diffusione capillare del Web, i social media rompono i classici schemi inaugurando uno scenario nuovo e, se possibile, dai contorni ancora più inquietanti.

Marcuse e la scuola di Francoforte hanno dipinto i mass media come un lavaggio del cervello collettivo per propagandare i valori della società capitalista-industriale, a cui cercano di opporsi poche voci fuori dal coro capaci di ritagliarsi delle piccole nicchie. Tale visione, se mai è stata del tutto convincente, oggi risulta decisamente superata.

Intendiamoci: il ‘mainstream’ esiste ancora, così come una logica profonda del Sistema, dove alcune posizioni risultano più consone di altre. Tuttavia, le nuove tecnologie interattive hanno stravolto le regole del gioco, ridefinendo da cima a fondo i modelli di business; per cui, se si può parlare di un ‘dominio’, esso assume forme completamente diverse dal recente passato.

Nel contesto delle attuali piattaforme social, non è più possibile esercitare un condizionamento culturale più o meno coatto ed esplicito, come avveniva con la televisione: si può però assuefare l’utente attraverso un ambiente virtuale sempre più invasivo e cucito su misura. All’atto pratico, ciò si traduce nel fornire a ciclo continuo contenuti a lui graditi e nell’allargare la sua cerchia di conoscenze virtuali, facendo attenzione a suggerire profili molto simili per passioni, credenze e opinioni. E’ l’avvento della soggettivazione dell’esperienza, come la definisce il semiologo dei media Ruggero Eugeni ne La condizione postmediale.

Tutto ciò avviene in maniera apparentemente ‘democratica’, nel senso che i protagonisti di questo processo (Facebook, Twitter, Google, le aziende inserzioniste, ecc.) non si preoccupano granché di filtrare e selezionare quanto condiviso dagli utenti, se non costretti dall’esterno (vedi la richiesta di segnalare le fake news o le pressioni su Facebook affinché fossero eliminate le pagine inneggianti a fascismo e nazismo, che prosperavano on line senza particolari problemi); mentre scrivo, su Facebook è persino attivo un gruppo dichiaratamente contro il fondatore Mark Zuckerberg, con più di 1.800 follower.

Mentre la televisione è intenta a convincerti che quanto appare sullo schermo è la realtà, i social media ti persuadono che la realtà coincide con le tue opinioni, con tutte le conseguenze che ciò può comportare. In un mondo composto di tanti microcosmi autoreferenziali incapaci di dialogare costruttivamente tra loro, dove il concetto di una verità esterna ai soggetti è completamente polverizzato in favore del peggior sofismo, non c’è da stupirsi se proliferano dibattiti caratterizzati da un pubblico totalmente autistico e incapace di intraprendere qualsiasi confronto pacifico e argomentato, facilmente sedotto dalle teorie del complotto. Si comprende finalmente anche il successo di fenomeni assurdamente inspiegabili quali il terrapiattismo.

Non mi riesce difficile immaginare perché alcuni membri della nuova élite digitale si siano esposti pubblicamente e impegnati nel messaggio di denuncia espresso in The Social Dilemma. Qualsiasi tipo di società, dalla più semplice alla più complessa, risulta attraversata da tensioni talvolta molto forti e capaci di distruggerne l’ordine costituito, che però si possono superare virtuosamente qualora i diversi strati di popolazione condividano obiettivi e significati comuni: così è stato tra patrizi e plebei nei primi secoli della Roma repubblicana, nell’Ancien Régime francese prima che l’assolutismo monarchico ne minasse lo spirito di fondo, tra industriali e proletariato operaio ai tempi del boom economico, solo per citare alcuni esempi celebri.

Una società incapace di dare un senso alla sua esistenza collettiva, dove all’avversario si sostituisce il nemico e vige un clima paranoide contrassegnato da continue campagne d’odio, può solo deflagrare su se stessa in maniere orribili, come la guerra civile paventata da uno degli intervistati nel documentario. Il clima di tensione e spaccatura creatosi dopo la morte di George Floyd – pesantemente condizionato da gruppi legati al suprematismo bianco e altre realtà molto attive on line, che ha fatto ripiombare gli USA ad alcuni dei tempi più bui della sua storia – è sicuramente figlio delle perverse dinamiche descritte da The Social Dilemma; altrettanto emblematico il confronto televisivo tra Trump e Biden, presto degenerato in una oscena rissa verbale senza il minimo costrutto.

Come si esce da queste spirale perversa? Cancellarsi dai social media, come proposto anche nel documentario, è ovviamente una legittima scelta a livello personale, ma non può rappresentare una seria strategia di cambiamento di massa. Oramai il grande pubblico vive lì, ritirarsi sdegnosamente dalle piattaforme digitali significherebbe rinunciare a qualsiasi reale capacità di influenza.

Si tratta allora di fruire dei nuovi media in maniera ‘sovversiva’, cioé diversamente dalle logiche che vorrebbero imporci. Compito arduo perché, come già spiegato, la condivisione di contenuti ‘anti-sistema’ (o presunti tali) di per sé non impedisce che il Moloch digitale li fagociti trasformando il medium nel messaggio e sfruttando l’attivismo dei ribelli di turno a proprio vantaggio. La forma – cioé la modalità di impiego – diventa quasi più importante della sostanza.

Cosa consigliare? Nel mio piccolo, mi sento di riproporre pari pari i suggerimenti che a suo tempo ho consigliato per la ricerca di un pensiero realmente critico :

  • Il pensiero critico è tendenzialmente individuale e rifugge dalle logiche di fazione. Sentirsi integrati in un gruppo è importante, ma attenzione a non indulgere nel conformismo della propria nicchia.
  • Diffidiamo da tutte le dispute che presentano un carattere perentoriamente ‘pro o contro’, ‘noi vs loro’ e simili: potrebbe trattarsi di scontri tra bande camuffati da dilemmi concettuali.
  • Riserviamo l’orgogliosa espressione “penso con la mia testa” solo alle questioni puramente teoriche e astratte; mostriamo un atteggiamento molto più umile in tutte le altre. Non usiamola mai come scusa facile per evitare il confronto.
  • Di fronte a un’argomentazione che suscita in noi reazioni particolarmente sdegnate e rabbiose, fermiamoci a riflettere sui motivi che ci spingono a provare tali sentimenti: spesso alla base c’è semplicemente la frustrazione di non saperla confutare efficacemente.
  • La realtà non si capisce limitandosi a sbugiardare menzogne.
  • Se un’analisi conduce a conclusioni divergenti dal nostro punto di vista, non limitiamoci a trovare qualche altro documento che lo convalidi, prassi molto semplice oggigiorno con Internet. Cerchiamo piuttosto di comprenderla e di decostruirne i ragionamenti su cui si basa, se ne siamo capaci, in caso contrario prendiamone serenamente atto.
  • Nutriamo una sana diffidenza per i contenuti che assumono connotazioni sloganistiche e semplicistiche, specialmente quando vengono troppo incontro alle nostre visioni.
  • Soppesiamo con estrema cautela gli appelli all’unità, a un generico ‘cambiamento’ e l’adesione a linee condivise.
  • Evitiamo sistematicamente le logiche dialettiche di branco e, nei limiti della ragionevolezza, proviamo sempre a differenziare la nostra posizione da quella del gruppo di riferimento.
  • Non caratterizziamo esclusivamente il nostro pensiero come ‘anti-qualcosa’, finiremmo solamente per scimmiottare ciò che odiamo.
  • Non sacrifichiamo la causa della ricerca verità in nome di nessun’altra. La menzogna non giustifica alcun fine, mai.

 

 

 

 

 

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

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