Il linguaggio della comunicazione : empatia

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A volte stare a letto influenzati ha dei vantaggi. Uno è quello di crogiolarsi a letto, tanto gli altri devono fare a meno di te, si arrangiano e con leggerezza senti che non sei necessaria. Che strano benessere abbandonarsi a sonni intermittenti, aprire la gabbia al pensiero.

Il mio si dipanava e delineava quella che è poi la mia visione del mondo, di noi viventi, del creato, della comunicazione tra noi viventi e il Tutto.

Provo a raccontare quel che la mia mente ha elaborato.

Non facile!

Noi, singoli esseri, siamo come cellule sparse in un unico grande corpo, il Tutto. Come loro abbiamo una membrana che ci delimita. A nostra difesa e nel contempo nostra forza.

Attraverso essa assorbiamo dall’ambiente circostante ciò che ci serve ed eliminiamo ciò che abbiamo prodotto di tossico.

La membrana, più o meno resistente, è uno strumento che ci aiuta ad avere consapevolezza di noi stessi, del nostro Io. Abbiamo la percezione, grazie ad essa, di ciò che siamo, di dove siamo, dello spazio che occupiamo…

A volte essa si fa più sottile, il nostro IO può dilatarsi, espandersi, arrivare a toccare un altro IO, sperimentare di essere immersi in un TUTTO.

L’empatia si verifica proprio quando due esseri vengono a contatto ravvicinato e le relative membrane si aprono tanto da far sentire i due esseri un unico essere.

Perchè avviene e come?

Bella domanda!

Una risposta parziale me la sono data. La musica, le onde attraverso cui si propaga, agiscono su questo involucro, neutralizzano le sue resistenze e difese e consentono al singolo essere di sperimentare la bellezza euforizzante di far par parte del Tutto.

A quanti è accaduto a un concerto di sentirsi per una qualche frazione di tempo in “ stato di grazia” ? Poi tutto ritorna come prima ma l’esperienza vissuta resta nella memoria dell’individuo e con essa la nostalgia di una “ bellezza speciale”.

Però…

se la persona non ha un IO ben formato, equilibrato, solido, si apre e si confonde col Tutto, preso da euforia fatica a rientrare nei soliti confini. Così usa ogni mezzo per sperimentare l’infinito, superare i limiti del proprio essere.

Rischioso anche.

Può succedere che questa espansione” fuori da sé ” sia negativa, disastrosa per chi non vede né riconosce il Tutto e sente solo il baratro del Nulla.

L’Essere esce dai suoi confini e vede il vuoto.

Tragico. Può accadere.

Perché è più facile aprire il proprio sé in ambiente naturale, in montagna, nel bosco, con un cane piuttosto che con un altro essere umano?

Perché ogni cosa creata ha questa “ membrana” che gli dà consistenza, che lo fa occupare spazio e tempo, che lo limita anche e che lo aiuta a sentirsi definito come individuo. Però è più sottile in piante, fiori, animali, monti,…. Meglio, in questi ” esseri” non vi sono resistenze all’apertura verso  ” l’altro da sè”.

Per questo, mi son detta. è più facile entrare in contatto con essi. Non troviamo resistenze, difese. Il Creato ci accoglie.

L’essere umano al contrario rafforza il proprio IO, e dunque questo involucro che lo delimita soprattutto quando entra in contatto coi suoi simili.

In questo modo rende più difficile l’apertura di sé, vista come un rischio.

Il risultato è di avere “ monadi” vaganti, “esseri” isolati, individualisti, in difficoltà ad entrare in empatia con ciò che è a loro esterno.

Equilibrio serve: capacità di gestire le potenzialità di questa membrana che ci avvolge. Può avvenire con la preghiera, la musica,la meditazione, il relax.

Non abbiamo paura di sperimentare la Bellezza del TUTTO!

Non si annulla la nostra identità in questo modo. Anzi! Si potenziano qualità come sensibilità, empatia,…

Intuizioni le mie nate da una particolare osservazione. Nel torpore dell’influenza pensavo: “ cosa è che fa sentire l’altro più vicino?”

E’ quel sentimento per cui l’altro si apre a me e io a lui, le nostre identità non son viste né sentite antagoniste bensì parte di una sola realtà, vicine, capaci di entrare in sintonia.

Si dice feeling, io dico empatia.

 

Foto da : tatanka.it

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insegnante di matematica in pensione, amante della natura in tutti le sue manifestazioni, amo scrivere, poesie soprattutto ma anche racconti e riflessioni che inserisco in un blog: http://silvanadalcero.com Sono presente nel sito internazionale della poesia del Novecento www.italian-poetry.org come autrice di poesie. Fino ad ora ho pubblicato tresillogi: Il passo e l'Orma I giorni e L'ombra Io Donna Natura. Per acquistarli: https://www.amazon.it/donna-natura-Silvana-Dal-Cero/dp/8872110033 https://www.lafeltrinelli.it/libri/silvana-dal-cero/i-giorni-e-l-ombra/9788898613212 https://www.libreriauniversitaria.it/passo-orma-cero-silvana-edizioni/libro/9788873143635

6 Commenti

  1. Giusto: per comunicare bene ci vuole empatia.
    Bisogna cioè attivare un “ponte radio” in grado di mettere in comunicazione “trasmittente” e “ricevente”.
    Nelle relazioni individuali farlo è fondamentale per potere costruire un buon rapporto; di qualsiasi natura.
    Ho qualche dubbio che funzioni nella comunicazione “uno-a-molti” o in quella “molti-a-molti”.
    Nel primo caso la comunicazione diventa qualcosa di diverso e, spesso, nasconde un potere coercitivo.
    Nel passato recente abbiamo avuto esempi eclatanti di comunicazione “uno-a-molti” e, da un punto di vista dell’etica sociale, cioè si è rivelato del tutto deleterio.
    Ma anche nella comunicazione “molti-a-molti” sorgono problemi.
    IUno di questi consiste nel decodificare una ridda di messaggi pluridirezionati; dunque con diversa direzione e verso.
    Questo, se vogliamo, è uno dei drammi della contemporaneità, dove l’eccesso di comunicazione, a guisa di un buco nero, fagocita ogni messaggio, lo frulla, lo rende poltiglia indistinta e indecifrabile.
    La difficoltà di capirsi io la individuo in due fattori:
    – nella caduta dell’area valoriale ( quale che essa sia)
    – nello spazio/tempo in cui si consumano i messaggi.
    Per me, che ho il senso del continuo, passato-present-futuro non sono altro che aspetti temporali del medesimo “film”; dove il “fotogramma” che precede e prodromico a quello che segue e così via narrando, dall’inizio alla fine.
    Diversamente la società dei consumi, del “tantoavere” ha convinto i piu’ dell’inutilità del passato e dell’inesistenza del futuro.
    Tutto avviene “oggi”; tutto deve essere consumato e bruciato in fretta.
    Anche la comunicazione diventa un “usa e getta”.
    Personalmente odio i “cinguetii” in rete: i messaggini di poche decine di caratteri coi quali devi condensare quello che pensi, quello che provi.
    Come se le idee, le emozioni, i sentimenti fossero qualche cosa che si può liquidare in un “amen”.
    Certo: Ungaretti ci è riuscito bene ma vi sono concetti che hanno bisogno di spazio e di tempo per essere espressi.
    Nell’epoca della semplificazione anche il linguaggio diventa l’evidenza, per dirla con Francis Galton, di “regressione verso la mediocrità”.
    Inoltre, e non è poco, la comunicazione di questo tempo privilegia la forma alla sostanza, l’immediatezza del messaggio al suo contenuto. Tutto deve arrivare come una scossa, un brivido; tanto intenso quanto subitaneo e di brevissima durata.
    Nell’epoca dove “sembrare” conta piu’ che “essere” l’empatia si traduce nel cristallizzare momenti, vivere attimi: senza passato, senza futuro.
    Tutta la società è pervasa da senso di precarietà, da insicurezza, da disincanto.
    Allora carpe diem.
    Continuerò dunque a chiedermi : “a cosa serve la (buona) comunicazione” e, piu’ ancora, oggi è possibile?

    • Grazie di questo intervento molto articolato che condivido in gran parte .

      Provo a rispondere solo per integrare il mio articolo nel quale mi sono limitata ad analizzare la comunicazione uno a uno.

      Se questa avvenisse in modo da portare due individui a comprendersi realmente immagino poi accada come ai cerchi nell’acqua.

      Si lancia un sasso ed essi si espandono.

      Migliora la mia comunicazione e come un’onda si propaga e migliora la qualità di ogni comunicazione.

      Certo è un percorso lungo, non facile e comporta profondi mutamenti nella persona.

      Io immagino che la persona capace di empatia sia animata da sentimenti positivi, buoni altrimenti come saprebbe entrare in contatto con altri cuori?

      Non pensavo certo alla comunicazione mediatica eccessiva cui siamo sottoposti.

      Trovo come te che questa ci svuoti la testa, spinga alla omologazione, spenga il cervello impedendo l’ascolto delle nostre voci interiori.

      Come ben descrivi ” …. la società dei consumi, del “tantoavere” ha convinto i piu’ dell’inutilità del passato e dell’inesistenza del futuro.
      Tutto avviene “oggi”; tutto deve essere consumato e bruciato in fretta.
      Anche la comunicazione diventa un “usa e getta”…..

      Nella società attuale l’empatia è molto carente e va controcorrente: impone il tempo della pausa, della riflessione, della meditazione, della generosità, dell’ascolto,….
      Tutte qualità assai poco presenti nei nostri giorni.

      Però io sono meno pessimista di te e spero in un mutamento sostanziale della persona e della società.

      Spero in un mondo dove sappiamo entrare in sintonia col nostro vicino, vincendo l’egosimo e l’isolamento, la precarietà e la solitudine.

      Lo so che appaio ( e sono) una idealista ma senza ideali siamo dei vinti in partenza.

      Non scrivo questa cose con ingenuità poichè della vita conosco ( purtroppo) abbastanza da sapere che a volte ci può schiantare.

      Ma non mi arrendo.

  2. Cara Silvana,
    grazie per la tua bella risposta.
    Credo che dobbiamo porci una domanda che, tutto sommato, sia tu che io abbiamo lasciato latente e inespressa: cosa ostacola una migliore comprensione delle persone: solo una cattiva comunicazione e una mancanza di empatia?
    Fosse così potremmo dire che il problema sia soggettivo e legato alle caratteristiche personali di ciascuno di noi; nonchè al vissuto, alla cultura e sensibilità individuali.
    In questo caso bisognerebbe “lavorare” sull’uomo, sulla sua natura, sulle sue aspirazioni magari frustrate dalla complessità della contemporaneità.

    Diversamente potremmo, prendendo a prestito un concetto di Marx ( assai poco studiato di questi tempi), ipotizzando che i comportamenti degli individui siano subordinati ai rapporti di produzione e di scambio.
    Cioè possiamo immaginare che “l’uomo”, in senso lato, sia così perchè “modellato” da fattori oggettivi che, in gran parte, ruotano attorno all’economia ( il lavoro, il reddito, la possibilità di avere buona percezione e realizzazione di sè col l’espletamento di un ruolo sociale appagante………)
    La società del “tantoavere”, per quarant’anni ha inoculato nel pensiero collettivo la convinzione che la felicità, la piena realizzazione della persona umana dipendesse dal denaro; mentre io, invece, trovo stupendamente vera la frase di Flaiano: “la felicità sta nel desiderare quello che si ha”.

    Mi viene in mente un’intervista, un po’ datata, di un giornalista ad un contadino vietnamita.
    Questi chiese al contadino, intento nel suo lavoro: “perchè pianti il riso ?” E il contadino, di rimando: “per vivere”.
    “E perchè vivi?” Insistette il cronista e l’altro: “per piantare il riso”.
    Ecco, sia pure in chiave occidentale mi pare che il sunto del quarantennio recente sia stato sostanzialmente questo.

    Prima del “miracolo” economico, i nostri nonni, i nostri genitori, erano molto parsimoniosi e poco inclini a buttare.
    Mio nonno aveva un angolino dietro la casa dove conservava di tutto; sicuro che, prima o poi, qualcosa sarebbe tornata utile.
    Poi sono arrivati gli anni in cui la gente è stata convinta come fosse basilare consumare, buttare. Solo così, a detta degli imbonitori e dei soloni dell’economia, sarebbe stato possibile creare nuova ricchezza.
    Dunque consumare, bruciare all’istante, buttare ( non importa se in un bidone o in qualche luogo di periferia della città) erano le premesse per una crescita senza fine, necessaria per il benessere diffuso.
    Non è un caso, e qui torna l’insegnamento marxiano, che si parlò dei “meravigliosi anni sessanta”; in cui avevi tutto. Natta aveva appena perfezionato quei polimeri che poi vennero prodotti industrialmente dalla Montedison come “Moplen”. La plastica entrava nelle case degli italiani, insieme alla TV e all’idea che il benessere fosse progressivo e inarrestabile.

    Poi, come sappiamo, dalla metà degli anni settanta in poi, il “vento” è cambiato e le cose sono peggiorate sino ad arrivare agli anni nostri.
    Sul versante agricolo, un ettaro di terreno “rende” oggi due volte tanto che negli anni sessanta; mentre la manodopera è piu’ che decimata.
    In compenso l’uso intensivo del suolo ha comportato perdità di fertilità, distruzione della micro e meso fauna, inaridimento e desertificazione.
    Sono stati risolti i problemi quantitativi del cibo ma a scapito della qualità e, se vogliamo dirla con una nota nostalgica, con una perdita di saperi e di sapori.

    Il mondo contadino, pure intriso di povertà atavica, aveva una grande ricchezza sociale e esprimeva una naturale empatia.
    Lo scambio, la solidarietà, la sussidiarietà erano caratteristiche proprie di quel mondo.
    Dunque possiamo concludere che l’empatia e la buona comunicazione, anche se indubbiamente afferenti ai “cuori” e alle sensibilità personali, abbiano molto a che fare con i rapporti di produzione, con la struttura economico-finanziaria di un paese.

    Non è un caso che, franato questo modello di sviluppo, si siano estremamente deteriorati i rapporti sociali, i comportamenti necessari per una convivenza civile.
    Il “cafonal” che impera, associato a forme latenti di violenza, verbale e fisica, sono il segno di una società degenere, ad immagine e somiglianza del modello che la esprime.

    E’ giusto che tu tenga viva la speranza in un mondo migliore.
    Vorrei tanto aderire alle tue convinzioni e immaginare che basti spendersi, anche individualmente, per cambiare le cose.
    Purtroppo in me prevale il pessimismo della ragione.
    Finchè saremo lo 0,99%, come qualcuno ha scritto in questa rubrica, difficilmente le cose cambieranno: indipendentemente dalla nostra buona volontà e senso altruistico.
    Spero tanto di avere torto.
    Raffaele

  3. Hai ragione Raffaele: noi siamo quello che siamo perché condizionati dai fattori esterni in cui siamo immersi.
    Non ci è possibile vivere impermeabili a tutto ciò che ci circonda.
    Tuttavia credo molto nella possibilità del singolo individuo di opporsi al condizionamento esterno nella misura in cui ne è consapevole.

    Dunque se mi rendo conto che la mentalità del denaro, del possedere, del potere mi porta a costruirmi una personalità individualista, egoista, materialista, bè, ho la libertà come individuo di dire NO.

    Pensa a quante persone sono convissute nel medesimo contesto e tuttavia hanno sviluppato personalità diverse.
    C’è chi si “ risveglia “ prima dal sonno ipnotico del condizionamento e chi invece non si risveglia proprio.

    Credo che colui che ha preso coscienza della realtà nei suoi aspetti condizionanti negativi abbia il dovere – responsabilità di aiutare altri ad aprire gli occhi.
    Per esempio come stiamo facendo ora, scrivendo e diffondendo un altro modo di pensare.

    Se ognuno di noi sa fare un passo verso un mondo nuovo, migliore, trascina con sé una parte di mondo.

    Come la valanga nasce da piccoli cristalli di neve così noi possiamo essere piccoli cristalli che possono originare un mutamento profondo.

    Condivido Raffaele l’intera tua analisi. Differisco solo nel modo con cui guardo a tutto questo. Non mi arrendo. Credo ancora nell’uomo e nelle sue capacità di reazione e di riscatto. Occorre però “ stimolarne” il risveglio.

    • Silvana, spero di non annoiarti con le mie continue repliche.
      E’ un piacere dialogare con te; peccato che altri non si aggiungano.
      Chi non desidera essere “fiocco di neve” che si aggrega con altri e, alla fine, provoca una grande massa critica che sfida le montagne?
      Personalmente ho questo desiderio. Per tutta la vita mi sono dato da fare per rendermi utile alla società.

      Il tema di questo topic è la comunicazione empatica.
      Ci sono comunicazioni che efficacemente fanno breccia ed altre che, indipendentemente dalle buone ragioni che promuovono, restano inascoltate.
      I protocristiani sono stati degli ottimi comunicatori : forse perchè qualcuno ha iniziato a pensare che non era carino darli in pasto ai leoni o, piu’ semplicemente, perchè il messaggio evangelico ha fatto breccia.
      Da materialista, quale sono, penso che sia buona la seconda ipotesi.
      Il cristianesimo ha preso piede perchè è giunto a Roma nel momento piu’ alto della crisi dell’impero. L’inflazione aveva messo in ginocchio l’economia e le legioni, malpagate, non erano piu’ in grado di contenere le rivolte nelle provincie.
      Oltrettutto l’ utilizzo degli schiavi rendeva inoccupata una quantità consistente di plebei.
      Dunque il messaggio : “ogni uomo è mio fratello” ha , di fatto, rotto un equilibrio già precario.
      La “comunicazione empatica” dei cristiani ha dato il colpo definitivo all’impero.
      Se vogliamo, un caso analogo lo possiamo trovare nell’America del nord, al tempo della secessione. John Brown è stato un ottimo comunicatore ( anche se è finito sulla forca), perchè, al di la dei suoi meriti personali, ha raccontato ad un nord tecnologico che la liberazione degli schiavi avrebbe favorito l’industria, in luogo delle braccia gratuite fornite al sud dagli schiavi senza diritti di sorta.

      Da questi due esempi possiamo trarre qualche considerazione? A mio avviso si.
      La comunicazione vincente è quella che apre alle nuove convenienze. brutale da dirsi ma è così.

      Io non vedo, ai nostri giorni e in questi luoghi, un messaggio così forte da fare deflagrare il consenso e fare di suggestioni altamente minoritarie, delle idee-forza.
      La decrescita, così come la raccontano Latouche o Pallante può essere davvero una maniera per ripensare la società, i rapporti di produzione, ridisegnare le classi, i rapporti sociali.
      Ma è una idea invisa perchè è agli antipodi della logica del “tantoavere”.
      Almeno tre generazioni sono cresciute plasmate dalla mentalità consumistica .
      Anche in un momento di acuta crisi, come questo, pochi si pongono il problema che la crisi stessa deve essere occasione di ripensamento e cambiamento.
      Il desiderio collettivo è quello di “ripartire” rimuovendo la crisi come un brutto sogno dal quale ci si può svegliare.
      Allora, in cosa può consistere il “messaggio” empatico?
      L’unico personaggio politico che, inascoltato e osteggiato ha parlato di “austerità come occasione di cambiamento” e di “nuovo modelllo di sviluppo” è stato Berlinguer.
      Oggi, anche a sinistra, nessuno pensa che la crisi sia sistemica. Quasi tutti, se non tutti, sindacati compresi, ritengono che basti distribuire meglio la ricchezza e fare un pò piu’ di perequazione sociale, all’insegna della crescita, per tornare ad essere il Paese dei Balocchi.

      Ecco perchè sono sostanzialmente pessimista.
      Provo un grande senso di stanchezza. Mi sento sconfitto.
      Tu però fai bene a non arrenderti.
      C’è qualcosa di piu’ bello di un cristallo di neve?

  4. Sì, due cristalli di neve.

    Il tuo pragmatismo mi trova concorde al di là del mio idealismo.

    Perchè credo che la necessità obblighi a fare scelte che, aspettando il tempo della “trasformazione” spontanea delle coscienze, sarebbe piuttosto lungo.

    Ciò che conta è cavalcare questi tempi di crisi per far breccia nei cuori e nelle menti, accelerando un processo di per sè lento.

    La necessità aguzza l’ingegno ma non solo.
    Obbliga a cambi di prospettiva mai pensati e dopo però i cambiamenti esterni influenzano le coscienze proprio perchè siamo esseri influenzabili.

    Allora facciamo in modo che la crisi sia l’occasione per dare una sterzata al cammino della società.

    Due tre … mille cristalli …. una valanga

    Alcuni si sono mossi sponataneamente, altri son rimasti essi stessi travolti e son divenuti valanga che travolge.

    Ho fiducia che arriveranno i mutamenti necessari per creare un mondo migliore .

    Buona notte Raffaele.

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