Pensiero critico e critica del pensiero/1

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Quello che state per leggere è il primo di una serie di articoli basati su riflessioni che covo da tempo e a cui ho talvolta fatto cenno ma che, vista la delicatezza delle problematiche esposte, sono sempre stato restio a manifestare nella loro interezza. Se lo faccio ora è perché, complice la situazione provocata dal Coronavirus (sempre lui di mezzo!), si sono esasperati in modo insopportabile problemi preesistenti, quindi preferisco espormi con tutte le incognite del caso anziché mettere la testa sotto la sabbia o fare l’ignavo. Confesso inoltre di essere stato incoraggiato dal comportamento di persone come Michele Dotti, Cristiano Bottone e Flavio Troisi, di cui ho apprezzato alcune prese di posizione malgrado la consapevolezza di urtare la suscettibilità di una fetta significativa del loro pubblico.

Infatti, so che la mia trattazione riceverà un’accoglienza ambivalente dalla comunità a cui ritengo idealmente di appartenere, cioé quella dell’ambientalismo radicale: plauso e sostegno quando verranno evidenziate le manchevoleze di soggetti come i debunker o Burioni; molto meno entusiasmo, invece, quando saranno alcuni comportamenti tipici degli ecologisti a finire spassionatamente sotto esame.

Inoltre, qualcuno vedrà in quello che faccio una manifestazione di arroganza e presunzione. In tutta sincerità, così come ammetto senza remore di non avere soluzioni miracolose per diffondere un autentico senso critico, alla stessa maniera mi ritengo una persona abbastanza adatta per affrontare certe questioni spinose, perché detesto faziosità e doppiopesismo, anche quando usati per promuovere cause che mi stanno molto a cuore.

La mia sarà quindi una critica prevalentemente distruttiva? Probabile. Magari, però, questa pars destruens fornirà un assist a qualcuno più brillante di me, in grado di elaborare proposte realmente efficaci per risollevarci dall’odierno baratro dialettico e intellettuale.

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Penso di pensare con la mia testa

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! (Immanuel Kant)

 

Poche persone si vantano spudoratamente delle loro qualità estetiche, fisiche o morali, in compenso “io penso con la mia testa” e un’affermazione sulla bocca di tutti, intendendo con ciò lo sforzo di autodeterminazione propugnato da Kant. Persino chi osserva pedissequamente l’insegnamento di un guru o una determinata ideologia non manca mai di decantare la sua indipendenza di pensiero.

Probabilmente entrano in gioco anche meccanismi psicologici. Esiste in tutti noi una componente narcisista-individualista che agisce per farci sentire speciali e distinti dalla massa, a cui si oppone invece un’altra uguale e contraria, di natura sociale, desiderosa di condividere sentimenti e opinioni con altre persone.

La situazione ideale si verifica quando le due istanze si conciliano nella formazione di piccole comunità che, spesso ostentando un carattere orgogliosamente minoritario (in spirito Davide vs Golia), si ritengono portatrici di visioni avanguardistiche o comunque scandalose rispetto al pensiero dominante (o percepito come tale); in questo caso, se il biasimo ricevuto dall’esterno non disintegra il gruppo, allora può paradossalmente cementare i legami interni, fino alla formazione di un vero proprio movimento, portatore di un messaggio unitario e coerente.

Al di là dei tortuosi labirinti della psiche, è innegabile che i grandi progressi della civiltà umana, in tutti i campi ma soprattutto in quello della conoscenza, si debbano quasi sempre a minoranze non omologate, spesso aspramente combattute, capaci di lasciare testimonianze durature che hanno stravolto il corso degli eventi. ‘Pensare in modo divergente’ rispetto alla massa, per usare un’espressione alla moda, è quindi garanzia di successo? Diciamo che trattasi di condizione necessaria ma non sufficiente: non credo proprio che l’eterodossia dei terrapiattisti recherà alcun beneficio, mentre conosciamo fin troppo bene gli orrori dovuti a quello che, in origine, era solo un manipolo di trangugiatori di birra guidato da un artista di scarso talento, a suo modo però dotato di fervida fantasia e inventiva.

Ovviamente, il comune cittadino può trovare un sano equilibrio tra le punte estreme rappresentate da campioni di genialità e anticonformismo quali Galileo o Gandhi da una parte e stravaganti esaltati alla Adolf Hitler o Charles Manson dall’altra. Tuttavia, è un dato di fatto che viviamo in una società infinitamente più complessa di quella di Kant, dove l’intelligenza individuale non può governare la molteplicità di fenomeni che impattano pesantemente sul nostro mondo vissuto, costringendoci quindi a riporre fiducia quasi incondizionata in enti terzi, siano essi istituzioni pubbliche o aziende private. Un evidente stato di minorità, nell’ottica del filosofo tedesco

Le astrazioni hanno ricadute eminentemente pratiche nella vita quotidiana: l’acqua che sgorga dai rubinetti sarà  potabile come dichiara il Comune? Le soglie massime di inquinamento consentite per legge salvaguardano davvero la salute? La mia auto avrà realmente le prestazioni indicate dalla casa costruttrice? Quel fatto successo dall’altra parte del mondo sarà accaduto proprio nelle modalità descritte dal telegiornale? Il farmaco X mi curerà con effetti collaterali limitati, come garantito nel bugiardino? L’azienda responsabile del trattamento dei miei dati personali tutelerà la privacy? Oppure, per restare alla stretta attualità, gli esperti del governo forniranno indicazioni corrette contro la pandemia?

Di fronte a tali interrogativi, improvvisarsi San Tommaso e verificare in prima persona sarebbe un atteggiamento inutilmente paranoide, perché è impossibile possedere tutti gli strumenti conoscitivi e tecnici necessari. E’ estremamente semplice, invece, accorgersi della poderosa rete di interessi particolari che influenza il comportamento degli organismi di garanzia. Gli innumerevoli scandali, piccoli e grandi, che negli anni hanno coinvolto politica, imprenditoria, informazione, ricerca scientifica ecc. hanno minato prestigio e autorevolezza in tutti i settori e, si sa, è difficile riconquistare la fiducia perduta. Di conseguenza, seminare dubbio e sospetto è una prassi che, di norma, troverà facile consenso in un pubblico già abbondantemente disilluso; così si spiega il successo delle teorie complottiste.

E’ bene precisare che gli Illuministi additavano a nemici dell’emancipazione intellettuale Chiesa, tradizione e monarchia per diritto divino, mentre erano certi che il progredire della conoscenza avrebbe inevitabilmente migliorato il benessere materiale e instaurato regimi politici dediti alla salvaguardia del bene comune; l’uso criminale o improprio di scienza e tecnica, oppure il loro impiego come strumenti per dominare la popolazione, erano eventualità inconcepibili.

Successivamente, alcuni pensatori dall’intelligenza straordinaria – in particolare Freud, Marx, Schopenauer e Nietzsche – hanno decostruito il quadro idilliaco tratteggiato dalla Società dei Lumi. Dal nostro punto di vista, però, sono particolarmente interessanti le contestazioni degli anni Sessanta, perché in tanti casi sono uscite dagli schemi canonici (ad esempio quelli della lotta di classe) per assumere la forma di rivendicazioni esistenziali contro le logiche invasive della mega-macchina industriale.

Quarant’anni di macelleria sociale neoliberista hanno fatto rimpiangere per tanti aspetti l’epoca del compromesso fordista-keynesiano, dimenticando però che essa è stata contrassegnata anche da paternalismo burocratico, distruzione sistematica degli ambienti naturali in nome dello sviluppo, condizionamenti culturali atti a trasformare una cittadinanza politicamente impegnata in una massa di passivi e mansueti consumatori. Il Sessantotto, nelle sue sfaccettature, è stato anche e soprattutto una richiesta di autonomia contro l’ingerenza di istituzioni e apparati nella vita degli individui. Le analisi di Baudrillard, Illich, Marcuse e Scuola di Francoforte, volte a denunciare le logiche perverse del consumismo, il dominio degli esperti sul corpo sociale e il ruolo della tecnoscienza come strumento di dominio, sono state probabilmente il lascito più importante di quegli anni, insieme a tutti i fermenti che nel mondo della ricerca hanno portato alla nascita dell’ecologia come disciplina scientifica.

Nello stesso periodo, Marshall Mcluhan analizzava i mezzi di comunicazione, concentrandosi in particolare su quello affermatosi con il boom economico, ossia la televisione. Lo descrisse nei termini di un ‘medium di conferma’, promotore del conformismo in quanto incapace di dare luogo a novità nell’ambito sociale o dei comportamenti personali. L’ambizione di ‘pensare con la propria testa’, quindi, se voleva andare oltre un gretto provincialismo basato sulla sola esperienza personale, passava inevitabilmente per la mediazione dei libri, sia per conoscere e criticare le vecchie auctoritas che per fruire degli autori simbolo della cultura della contestazione. Una lettura non superficiale richiede impegno e concentrazione, un onere che spesso scoraggiava i meno tenaci, i quali preferivano tornare mestamente nel gregge della maggioranza silenziosa (oppure consultare qualche Bignami utile per darsi arie intellettualoidi).

La restaurazione neoliberale degli anni Settanta-Ottanta e l’inaridimento culturale causato dalla tirannia mediatica televisiva hanno calato una pesante cappa che si è diradata solo con la diffusione capillare di Internet, un elemento di novità che ha rivoluzionato non solo i mass media ma l’intera società. La Rete ha democratizzato informazione e sapere? (Manuel Castells, Beppe Grillo) Ha agito da facilitatore e promotore di una coscienza planetaria? (Edgar Morin) Oppure ha solo offerto visibilità prima inimmaginabile a legioni di imbecilli? (Umberto Eco).

Ha fatto tutto questo e molto di più. Personalmente, ritengo ancora i vantaggi di molto superiori ai pur innegabili inconvenienti; tuttavia, dopo più di vent’anni di esperienza telematica, devo ricredermi rispetto a certi avventati entusiasmi giovanili. Sono giunto alla conclusione che si possono trarre importanti benefici solo disponendo di competenze maturate in ambito non digitale (cioé principalmente sui libri), essenziali per interfacciarsi correttamente con lo smisurato patrimonio di informazioni della Rete; altrimenti, si tenderà a utilizzarla alla maniera della vecchia televisione, come se i siti Web fossero migliaia di programmi e i motori di ricerca una forma avanzata di guida ai palinsesti.

Se alla ricerca meditata e razionale si sostituisce una pratica molto più passiva simile allo zapping, allora il prezioso pluralismo di Internet si trasforma in un frutto avvelenato. Infatti, se fino a trent’anni fa l’autodeterminazione intellettuale richiedeva necessariamente uno sforzo attivo per cercare quello che non avremmo mai trovato in TV, oggi lo stesso strumento che ci rifornisce di abbondanti dosi di mainstream ci elargisce pure contenuti ‘alternativi’ preconfezionati per tutti i gusti, basta solo cercare quelli più consoni ai propri orientamenti. ‘Pensare con la propria testa’, a quel punto, si riduce a cercare qualcuno che convalidi le nostre credenze pregresse e i nostri pregiudizi, da promuovere poi a nuova auctoritas.

L’ascesa dei social network ha completato l’opera, perché ha permesso a fake news, contenuti di infimo livello e pseudointellettuali di diventare virali. Tutto ciò ha provocato il triste fenomeno della cosiddetta post-verità, dove like, visualizzazioni e condivisioni provvedono a elevare anche le menzogne più bieche a fatti concreti. La percezione stravolge totalmente la realtà.

Come se non bastasse, i social favoriscono la già descritta tendenza umana alla ‘comunità di persone speciali’, portandola al parossismo. Quando si posta un contenuto su di un gruppo Facebook, ad esempio, lo si fa quasi sempre per rafforzare i convincimenti dei suoi membri; un atteggiamento volto a problematizzare e a far emergere dubbi, anche negli ambienti più tolleranti, alla lunga viene considerato una condotta da troll e conduce alla stigmatizzazione di chi desiderava solo riportare un po’ di obiettività. Ultras e intransigenti trovano invece il loro ambiente ideale.

Da qui derivano alcuni problemi considerevoli:

  • formazione di un clima generale improntato al ‘noi vs loro’, tipica forma mentis del branco;
  • convinzione che la bontà della causa giustifichi ogni mezzo;
  • radicalizzazione delle posizioni che impedisce qualsiasi confronto costruttivo e argomentato con chi la pensa diversamente.

Di fatto, il dibattito pubblico si è concentrato quasi esclusivamente sul secondo punto e limitatamente alla diffusione di fake-news, a cui si è proposto di ovviare con la pratica del debunking o fact-checking. Sono sorte poi iniziative più radicali allo scopo dichiarato di restituire alla scienza – considerata la massima forma di pensiero critico – la giusta autorevolezza sui mass media e nella società in generale; in Italia, il caso più celebre ha visto protagonista il virologo Roberto Burioni. Nelle prossime puntate spiegherò perché questi approcci, pur con i loro meriti, non rappresentino la soluzione adeguata e addirittura possano rivelarsi controproducenti.

(continua)

Fonte immagine in evidenza: vignetta di Altan

 

 

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