Quando Re Mida volle il “tocco d’oro”

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Era il 1776 quando venne pubblicata un’opera che sarebbe divenuta una pietra miliare del liberismo economico e che avrebbe dato avvio all’economia politica in senso moderno: La ricchezza delle nazioni di Adam Smith.

Secondo la definizione di Smith, fini dell’economia politica sono quello di “provvedere di un abbondante reddito e di abbondanti mezzi di sussistenza la popolazione”[1] e quello di fornire allo stato “un reddito sufficiente ai servizi pubblici. Essa si propone di arricchire tanto il popolo che il sovrano.” La ricchezza delle nazioni viene (anche culturalmente) concepita come la quantità di denaro nelle mani di una popolazione o di uno stato e l’economia politica come lo studio teorico che deve favorire tale arricchimento. Il commercio estero è descritto come uno strumento fondamentale in questo tipo di economia, in quanto incoraggia i paesi a migliorare le proprie capacità produttive, esporta il sovrappiù per il quale non esiste domanda interna e in questo modo dovrebbe incrementa reddito e ricchezza della società e di tutti i diversi paesi tra i quali il commercio si svolge (secondo il celebre principio individualista della “mano invisibile”…) La libera concorrenza dovrebbe guidare le scelte commerciali e sarebbe, di per sé, in grado di portare il maggiore vantaggio a tutti.

Alcuni di questi elementi sono radicati profondamente nella nostra cultura e nel nostro sistema sociale ed economico al punto da farceli percepire come dati di fatto non discutibili. Innanzitutto l’idea di economia come scienza finalizzata ad arricchire la nazione incrementandone il denaro. Questa in realtà, come fa notare Francesco Gesualdi in Dalla parte sbagliata del mondo [2] è solo una “logica mercantile”, che ragiona in termini di denaro e non ha una visione più ampia, ecologica, di confronto con le risorse naturali.  Questa è, quindi, una visione di ricchezza molto parziale, in quanto considera come tale solo ciò che “ha un prezzo” e privilegia inevitabilmente la ricchezza individuale a scapito di tutto ciò che è comune: risorse, spazi comuni, ecosistema. Ma una siffatta concezione della ricchezza è finalizzata a se stessa, ad un progressivo aumento, senza che sia relazionata direttamente ad una domanda e ad un bisogno effettivo. Si tratta dell’economia che Aristotele, nel primo libro della Politica, definiva “non naturale”, in quanto non collegata al soddisfacimento dei bisogni e che, pertanto, lui per primo rigettava: “Una sola specie di acquisto è una parte naturale dell’economia: quella che si deve praticare per raccogliere i mezzi necessari alla vita e utili alla comunità politica e familiare. Ed è ragionevole affermare che la vera ricchezza consista in questi mezzi. La quantità di simili mezzi per una vita buona non è infinita”. Nasce così, per Aristotele, la “crematistica”, l’arte di guadagnare denaro: “di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale.”[3] È questo il principio  alla base del capitalismo neoliberista, che necessita – per sopravvivere – di un incremento continuo dei consumi della società, ricreando bisogni innaturali spacciati sotto l’etichetta del “benessere” . Ed è sempre questo principio a sovrapporsi anche alle scelte e alle strutture politiche. In tutto ciò si perde una domanda fondamentale, che era invece alla base della riflessione economica di Aristotele, ossia quella della ricerca di quale sia la “vita buona”, ricerca che non è un compito individuale ma collettivo e alla quale deve essere indirizzata l’azione politica e culturale.


[1] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, libro IV, RCS Quotidiani S.p.a. Milano, 2010.

[2], Intervista a Francesco Gesualdi (a cura di Lorenzo Guadagnacci), Dalla parte sbagliata del mondo, Terre di mezzo editore, Milano, 2008.

[3] Aristotele, Politica, Libro I.

 

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Sono nata e vivo a Carpi (Mo). Mi sono laureata nel 2012 in lettere moderne presso l’università di Parma con una tesi su "Gomorra" di Roberto Saviano; attualmente sto completando gli studi in Italianistica all’università di Bologna. Spero di poter lavorare come insegnante presso le scuole superiori.

2 Commenti

  1. La cosa che ho sempre trovato assurdo del libro di Smith è il suo carattere utopistico nel senso deteriore del termine, cioé di una descrizione che non collima minimamente con la realtà. Secondo Smith nel sistema economico ci sarebbe uguaglianza di condizione tra consumatori e imprese, e lo scrive nell’epoca in cui esistono protocorporation come la Compagnia delle Indie…

  2. ..mi piace il concetto di economia di Aristotele che la intende come l’arte di dirigere la casa…è un concetto “sano” a misura di uomo. Purtroppo l’economia oggi ma anche in passato e nell’antichità (può un solo individuo farsi costruire una tomba delle dimensioni di una piramide?!!) ha spesso avuto altri significati legati alla volontà di chi deteneva il potere e per questo votata a creare ingiustizie e miseria più che abbondanza e felicità. Purtroppo io sono un pò pessimista sulla natura umana. Vedo gli individui impegnati a dividersi una torta che per quanto grande sia è sempre poca cosa per la moltitudine se coloro che hanno il compito di tagliarla sono disonesti…DISUMANAMENTE DISONESTI.

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