Né distopie né minestre riscaldate

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1936

Con il 35% di astensionismo e la mancata presentazione delle liste in gran parte dei comuni, è molto difficile valutare la reale portata dell’affermazione alle elezioni amministrative francesi del Front National di Marine Le Pen; non si può negare però che rappresenti una realtà con cui fare i conti, così come si deve ammettere il salto di qualità che la figlia di Jean Marie ha fatto compiere al suo partito, per cui effettivamente la definizione di ‘estrema destra’ suona un po’ riduttiva (anche se non tanto da meritare querele in tribunale, come pretenderebbe la leader francese).
Di fatto la Le Pen ha ridato vigore al pensiero gollista – oramai totalmente snaturato dall’UMP, erede del partito originario di De Gaulle – operando una rivisitazione della grandeur francese aggiornata al XXI secolo, con una spruzzatina di estremismo destrorso qua e là a radicalizzare il tutto.

Troviamo quindi il rifiuto dell’Unione Europea in nome della sovranità nazionale di uno Stato forte, l’abbandono dell’Euro, la critica al liberismo economico e il ritorno al protezionismo, l’uscita dalla NATO e l’espansione dell’industria bellica (nonché la riaffermazione della Francia come potenza nucleare e partner privilegiato dei paesi ex coloniali), il blocco dell’immigrazione e l’abbandono del comunitarismo (termine francese con cui si indicano le politiche volte all’integrazione delle minoranze), lotta dura alla criminalità (il classico slogan della ‘tolleranza zero’) attraverso il potenziamento delle forze di polizia e l’eventuale ripristino della pena di morte.

Siccome il Front National ama parlare anche di rilancio dell’agricoltura e dell’artigianato, la Le Pen attira le simpatie di alcuni sostenitori della decrescita, ragion per cui non mi pare affatto fuori luogo trattarne sulle pagine di DFSN.

Karl Polanyi soleva ripetere che la promessa economica del fascismo è di liberare il capitalismo dalle sue crisi cicliche attraverso il controllo dirigistico dello Stato, al modico prezzo della libertà, dell’uguaglianza e della pace. La promessa della Le Pen, di fatto, è ancora più perversa: riportare l’orologio agli anni Sessanta, al boom economico che per la Francia è stata appunto l’epoca della grandeur gollista, e mantenere in perpetuo questa situazione favorevole, che a suo tempo sarebbe crollata non per cause intrinseche ma per la protervia della finanza, per l’ingerenza americana, per l’invasione di sfaticati popoli del sud del mondo, per il pacifismo e l’adesione a deleteri valori progressisti che hanno fiaccato l’orgoglio nazionale. Insomma, viene proposta un keynesismo nazionalista dove l’identità nazionale, l’ossessione per la sicurezza e l’ambizione militarista si sostituiscono alla garanzia dei diritti sociali della vecchia socialdemocrazia.

A questo spettro, Matteo Renzi replica con una UE impegnata a “mettere al centro la crescita e la lotta alla disoccupazione” e che nello stesso faccia quadrare i conti dei bilanci nazionali. Con il suo aspetto giovanilistico e post-ideologico, il premier fiorentino incarna apparentemente  la nemesi della leader francese, il neoliberismo post-crisi ‘dal volto piacione’. Rappresenta quella visione, molto gradita ai colossi finanziari mondiali (i cosiddetti ‘mercati’), che mira a svigorire le sovranità dei singoli stati in entità sovranazionali quali la UE, dove la politica viene svilita a tecnocrazia e vengono imposte soluzioni standardizzate a tutti i paesi componenti. Le proposte di riforma costituzionale renziane, volte a rafforzare il ruolo dell’esecutivo (in particolare del premier) e a indebolire le prerogative del parlamento sembrano proprio pensate per stroncare qualsiasi opposizione alla macelleria sociale che, sulla base del Fiscal compact e di altri trattati europei analoghi, si profila all’orizzonte. Del resto la storia insegna che i governi collaborazionisti sono sempre molto autoritari con le proprie popolazioni.

Per quanto possano sembrare agli antipodi, Marine Le Pen e Matteo Renzi in realtà presentano almeno due importanti punti in comune: la fissazione per la crescita e il disprezzo per la comunità locale. Se per l”europeista’ Renzi è superfluo riportare esempi, è utile invece citare uno stralcio di un comizio tenuto dalla francese il primo maggio 2011:

“…aveva ragione Charles Péguy quando sosteneva che «è l’ordine e solo l’ordine che in definitiva determina la libertà, il disordine crea la schiavitù».È questa esigenza di libertà che oggi, come sempre, ci spinge a combattere il comunitarismo che è la negazione della laicità, della repubblica, dell’individuo libero e la negazione del cittadino quale membro di una nazione politica e fisica. La nostra visione dell’uomo è quella di un individuo saggio, libero nelle sue scelte, affrancatosi dalle pesantezze di una comunità che spesso non ha scelto e che troppo spesso lo limita. Ne deriva che l’unica comunità che valga è quella nazionale, in quanto è l’unica che permetta la crescita e la libertà”.

Il cittadino per la sua libertà dovrebbe quindi diluirsi nella ‘comunità nazionale’ – cioé quella più astratta, artificiosa e sulla quale la popolazione ha meno voce in capitolo. Le comunità locali, quelle storiche e reali, quelle che i cittadini possono toccare con mano, dove possono realmente organizzarsi senza delega, vengono descritte come il regno del caos. Non mi sorprenderebbe che la Le Pen, persona scevra da legami con lobby economiche, mostrasse il medesimo disprezzo dei politici tradizionali per realtà come il movimento No-Tav, ree di trasgredire ai diktat dello Stato centrale. I fautori degli Stati Uniti d’Europa (che promettono il ritorno a panem et circenses) e i sovranisti (che invocano panem et bellum) sono accomunati da un’idea di unità basata sulla soppressione delle differenze – i primi a livello continentale, i secondi a livello nazionale – e non sulla ricerca di un denominatore comune. Un totalitarismo soft e confortevole, ma certamente inquietante. Il Manifesto per un’Europa decrescente, tra le varie istanze, cerca proprio di ripartire dalle comunità, viste in una forma concreta e soprattutto dinamica, per nulla nostalgica e cristallizzata nel tempo. Comunità ‘organiche’ custodi della tradizione ma anche consapevoli delle mutazioni indotte dai movimenti di popolazione, dagli scambi culturali, dalle innovazioni tecnologiche. Dal Manifesto per un’Europa decrescente:

“Proviamo a pensare all’Europa intesa come una rete, non gerarchica, di Municipalità (o eco-regioni) autonome, formate a loro volta da reti concentriche di Comuni, dove sia possibile attuare una “democrazia di prossimità”, ovvero una più avanzata forma di governo popolare che permetta ai cittadini di partecipare a tutti i livelli dei processi decisionali”.

Qualcuno parlerà di utopia irrealizzabile, oppure sminuirà il valore della democrazia di prossimità. Ma solo questa nuova forma di governo municipale può aspirare a implementare la decrescita: istituzioni sorpassate e distopie globalizzatrici possono solo accelerare la marcia verso la catastrofe.

 

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

2 Commenti

  1. Ciao Igor,
    cosmopolitismo e particolarismo sono sempre stati due modi di concepire l’organizzazione degli ambiti territoriali e la manifestazione dei pubblici poteri.
    Come ogni ragionamento sui massimi sistemi, dentro questa diatriba ci stanno ragioni e torti.
    L’idea cosmopolita ha tratti di nobiltà, in quanto riconosce la bellezza dell’uguaglianza tra gli uomini, la parità dei diritti, la circolazione delle idee, lo scambio di merci, la collaborazione scientifica e tecnologica senza confini, il diritto universale a decidere insieme delle sorti comuni.
    La massima espressione di questa concezione è indubbiamente l’ONU.

    Però il cosmopolitismo, per via della sua assoluta inclusività è costretto a essere inevitabilmente generico e solo enunciatore di principi o propugnatore di blande azioni perchè possano essere condivise.
    In altre parole, per definizione, il cosmopolitismo rifugge i conflitti e fa leva solo sugli aspetti nei quali tutti , al di là delle differenze peculiari, possano riconoscersi.

    E’ inevitabile dunque l’esigenza dell’esistenza del particolarismo, quale propensione all’unicità, alla tipicità, alla sottolineatura delle differenze.
    Se il cosmopolitismo rischia di essere fatuo, perchè troppo generico ed inclusivo, il particolarismo, all’opposto, rischia di essere settario e, negli eccessi, segregante e xenofobo.

    Come sempre il giusto sta nel mezzo: nell’equilibrio tra spazi di convergenza e sottolineatura delle specificità.
    Penso che nell’esigenza di equilibrio stia il nocciolo del problema.
    I burocratismi, i tentativi di standardizzare le decisioni ( e a cascata di standardizzare le culture, la vita e i consumi delle persone) è fenomeno che può e deve essere battuto solo con una forte sottolineatura dell’esigenza particolarista che si traduce in un novellato vigore delle autonomie locali.

    Non è oggettivamente facile armonizzare esigenze centrifughe e centripete.
    Personalmente ritengo che un forte localismo, basato sulla valorizzazione delle energie che vengono dal “basso”, dalle comunità faccia solo bene all’idea cosmopolita.

    L’epoca dei Comuni e delle Signorie è stata così feconda perchè ha visto dispiegarsi le migliori energie: quelle che venivano dalla voglia di intraprendere degli artigiani legati alle corporazioni; quelle dei banchieri, desiderosi di mettere a frutto i loro capitali, quelle degli studiosi che desideravano sfondare le mura dell’economia curtense pensando al mondo che stava fuori e “oltre”.
    In pratica, a differenza delle logiche medioevali, quella dei Comuni e delle Signorie è stata, al tempo stesso, esaltazione delle specificità localistiche e voglia di “contaminazione” ( basti ricordare Marco Polo) o, se vogliamo, in modo meno prosaico, voglia di esportare la propria civiltà.

    E oggi?
    Per non farci stritolare tra conservatorismi teconocratici e derive populistico-xenofobe, dobbiamo operare per rafforzare i poteri locali; per alimentare lo spirito di comunità.
    Negli anni ’70 c’è stato un forte impulso al decentramento. Allora si sollecitò la partecipazione dei cittadini; del resto, a loro volta, desiderosi di un governo della cosa pubblica “dal basso”.
    La “base” esercitava un controllo delle Istituzioni e degli uomini che le governavano.
    Ma poi è arrivato il Mule ( il personaggio di Asimov della Trilogia della Galassia) col suo potere condizionatorio, con la grande suggestione dell’Uomo solo al comando: l’unico meritevole di delega; l’unico in grado di pensare al bene di tutti.

    E’ tempo di uscire da una certa genericità facendo in modo, nel nostro piccolo, nasca una forte progettualità in grado di superare la dimensione del desiderio, per passare a quella del “fare”.
    Del resto sono numerosissime le iniziative che già sono presenti sui territori, messe in atto dai GAS e altre forme di iniziativa solidale.
    Si tratta di incoraggiare questi processi di aggregazione e di gestione del bene comune dal basso.
    Certo: perchè questi processi, ancora embrionali, si rafforzino serve che la politica non sia distratta e non guardi altrove.
    La direzione di marcia dell’inevitabile cambiamento sarà tanto piu’ evidente quanto piu’ si riuscirà ad incanalare la indistinta protesta ( nella quale convivono spinte di segno opposto).
    Si tratta di un compito non facile. Come non è facile essere buon seme per la buona terra.

    • Condivido tutto, con un’unica preoccupazione: che i GAS, le reti di economia solidale, ecc. siano i primi a svilire le proprie iniziative senza rendersi conto degli enormi potenziali politici correlati.

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