Captain Fantastic e la solitudine dell’utopia

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Forse a qualcuno non è sfuggito il film diretto da Matt Ross, e che vanta un Viggo Mortensen ben calato nella parte, scivolato nelle sale cinematografiche durante il mese di Dicembre. Personalmente non l’ho sentito arrivare con particolare rumore, tanto che abbiamo dovuto rincorrere Captain Fantastic in una sala d’essay fuori città. Non ho l’intenzione di svelare la trama o recensire il film per filo e per segno, ma per quanto la storia sia semplice e, se mi è concesso, abbastanza prevedibile, può dare luogo a qualche spunto o sollecitazione.

Ben Cash (Viggo Mortensen) ha cresciuto i suoi figli nei boschi del Nord America lontano dal mondo “civilizzato”, dal “Sistema”, organizzando le loro giornatecon (estremo) allenamento fisico, studio, cucina, musica. I ragazzi crescono in adorazione del padre – coach, a contatto con la natura di cui sono esperti conoscitori e maneggiatori, parlando esperanto, dialogando apertamente di ogni tematica senza troppi imbarazzi, e soprattutto in opposizione alla società consumistica di cui non fanno parte (tipico lo slogan: “abbasso il Sistema!”).

L’anima del film ruota intorno all’incontro – confronto – scontro con il mondo sociale da parte dei ragazzi, che lasciano le foreste a bordo di un pulmino per partecipare al funerale della madre, morta suicida a causa del disturbo bipolare che la opprimeva. Come era prevedibile, una volta usciti dai boschi, anche la figura leader del padre, fino ad allora indiscussa, comincia a scricchiolare, in particolare quando alcuni dei ragazzi si riconoscono incapaci di comunicare con il mondo reale: “A meno che non sia scritto su un libro, io del mondo non so niente”, osserva ad un certo punto Bodevan, il figlio maggiore.

Molte sono le tematiche del film che si possono isolare, prima fra tutte l’educazione, il consumismo, il rapporto con la natura. Quello su cui però vorrei ora focalizzare l’attenzione è l’idea (abbastanza centrale nel film) che realizzare la propria utopia, o la propria “salvezza” da ciò che è riconosciuto come corrotto e malato, è possibile solo con l’isolamento, e in un certo senso anche in modo monologico. La descrizione dello stile di vita dei Cash, che occupa la prima parte del film, è davvero la descrizione di una possibilità di vita totalmente diversa da quella che per noi è la normalità, e che presa nella sua individualità e nel suo ambiente protetto funziona a meraviglia (benchè – credo volutamente – sia portata verso la sua esagerazione). Il problema è che la famiglia di Ben si rivela incapace di comunicare con il resto del mondo, verso il quale, volente o nolente, è chiamata. È un paradiso solitario, quello di Ben, dove la convinzione di difendere i figli dal capitalismo, e di offrire loro uno sguardo libero dalle deformazioni del consumismo (la Coca cola viene definita semplicemente “acqua avvelenata”)  li spinge poi verso un’altra prigionia.

Temo, e forse se ne è già abbondantemente discusso, che tanti movimenti animati da una visione alternativa rispetto a quella corrente, non siano immuni da questo rischio. Non quello della prigionia, sia chiaro, ma quello dell’ inter nos, del monologo e della difficoltà di non lavorare soltanto per se stessi, tenendo invece vivo un obiettivo reale di fecondità per le proprie opinioni. Ben deve decidere se continuare ad essere il Captain Fantastic dei suoi figli, rinforzando e difendendo le sue convinzioni profonde e l’utopia che ha in qualche modo realizzato, ma condannandoli così alla solitudine (e all’estinzione); oppure può scegliere di ascoltare i richiami provenienti dai figli stessi e dal mondo “normale”, rinunciando al ruolo inattaccabile che si era costruito e permettendo loro di conoscere con mano anche la malattia del mondo che li circonda, ed è forse questo l’unico compromesso in grado di rendere il loro sguardo non solo libero ma anche, in qualche modo, fecondo.

FONTEFOTO COPERTINA
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Sono nata e vivo a Carpi (Mo). Mi sono laureata nel 2012 in lettere moderne presso l’università di Parma con una tesi su "Gomorra" di Roberto Saviano; attualmente sto completando gli studi in Italianistica all’università di Bologna. Spero di poter lavorare come insegnante presso le scuole superiori.

2 Commenti

  1. Sono d’accordo sul dilemma che si pone a chi tenta di rifiutare la società dei consumi in cui le altre persone sguazzano a loro agio inconsapevoli e felici; specie se in questa scelta sono coinvolte altre persone a cui non e’ data la possibilità di esprimere il proprio punto di vista. Sicuramente nel film la questione viene enfatizzata perché trattasi di film (appunto…per di più americano) ma è anche vero che nel nostro agire quotidiano possiamo fare tanto per scardinare il sistema senza compromettere i nostri rapporti sociali. Ciao Giulia.

  2. Il film l’ho visto dopo aver letto questo articolo. Da noi, stranamente, è stato in sala per tanto tempo.
    Mi è piaciuto, mi ha commossa.
    Il dilemma (farò bene, farò male?) in effetti è il coinvolgimento in questa propria utopia di altri soggetti, in particolare dei figli.
    Io stessa mi dico sempre che qualsiasi scelta io voglia fare rispetto al sistema la devo rinviare al momento in cui mio figlio avrà lasciato il nido. Lui non capirebbe.
    Ma nello stesso tempo non credo che qualcuno di noi sarebbe in grado di vivere in quel modo selvaggio. Il mio commento alla scena iniziale è stato: “ma io non voglio decrescere fino a questo punto!”
    Nel finale mi pare che si sia raggiunto un buon punto di equilibrio.

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