La salsa del rematore

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Riceviamo e pubblichiamo volentieri un racconto di Massimo Vaglio, intitolato ‘La salsa del rematore’.

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Salsa, questa parola fa riaffiorare dal talamo di tanti i salentini, un turbinio di sensazioni e ricordi. Levatacce, caldo, grida, impegno, rimproveri, stanchezza, ma anche della grande piacevole convivialità che, suo malgrado, questa impegnativa occupazione collettiva generava. Per molti era una sorta di festival, un tour itinerante, attraverso il quale alcune famiglie si scambiavano reciprocamente aiuto e strumenti, un retaggio dell’antica civiltà contadina che voleva che tanti lavori si svolgessero collettivamente e scambievolmente senza alcun passaggio di denaro, come pure era collettivo l’utilizzo di attrezzi e masserizie di uso non quotidiano. Le famiglie si riunivano, c’era quella che portava la “macchinetta”, chi i “limbi”, il treppiede o una “firsora” più capace. Ogni famiglia per così dire ospitante, aveva da qualche giorno già stoccato i pomodori ben distesi su qualche coperta nella rimessa, in modo che completassero perfettamente la maturazione e aveva risciacquato diligentemente le bottiglie. La laboriosa eliminazione dei peduncoli, pomodoro per pomodoro e il lavaggio erano le fasi propedeutiche, seguiva la “stringitura” di ogni singolo pomodoro per eliminare il cosiddetto “riddhru” o “criddhu” ovvero i semi ancora avvolti nella protettiva, fluida placenta, questo veniva recuperato, condito con abbondante olio di frantoio, sale e aromatizzato con origano e aglio costituiva una golosa stuzzicante salsetta in cui inzuppare i “frizzuli”, ossia le molliche biscottate residuate dallo spacco delle “friseddhre”, appositamente serbate, oppure per condire grandi “marende”, di pane di grano duro. A poco a poco, le “firsore” ossia le caldaie di rame, si riempivano dei pomodori strizzati e venivano poste sul treppiede sotto cui già da un po’ era stato approntato il fuoco. Queste erano nere esternamente per via di una spessa crosta di fuliggine derivante dal lavoro ingrato cui erano abitualmente sottoposte, per cui non venivano mai lavate esternamente, farlo sarebbe stato un inutile, quanto faticoso spreco di lavoro, ma erano di un lucido abbagliante all’interno e lo sarebbero state ancora di più, quando a fine lavoro, l’acidità del pomodoro avrebbe rimosso anche quella impercettibile patina di ossidazione della stagnatura. Una volta ammorbiditi da una breve cottura, i pomodori venivano passati operazione rigorosamente a cura del padrone di casa che manovrava la macchinetta Tre Spade, con un’attenzione degna di un complesso macchinario industriale. Tutti all’opera quindi, a travasare, a imbottigliare, tutti e tutte, o quasi, perchè immancabilmente qualcuna gironzolava come un elefante in una gioielleria attenta a non toccare nulla e redarguita se pur si avvicinava un po’ di più a quei rivoli di oro rosso. Aveva “le cose sue”, tutti erano certi del motivo di quell’improvviso esonero lavorativo, ma nessuno ne faceva per discrezione il benché minimo accenno, dimostrando un esemplare rispetto ante litteram della privacy. I modi di preparazione erano vari e a volte scambievoli a seconda di come si era rimasti soddisfatti del metodo utilizzato l’anno precedente, c’era chi utilizzava l’acido salicilico venduto già a dosi preconfezionate dalla felice memoria di Premio della Puticheddhra, nella dose di un grammo per “qualu”, ossia per boccale, circa un litro, di passata. Altri metodi, ma più laboriosi erano quello alla “manta”, ove veniva sfruttato l’effetto sterilizzante dell’implacabile solleone salentino, ma non sempre foriero di buoni risultati e quello a bagnomaria più laborioso e leggermente costoso, poichè esigeva l’utilizzo di bottiglie robuste che potevano resistere alla prolungata bollitura e con la chiusura ermetica garantita dai tappi a corona. Tutti questi metodi, erano già innovativi e per così dire tecnologicamente avanzati rispetto all’originario procedimento, soppiantato ormai da qualche decennio, che consisteva nello spremere i pomodori da crudi utilizzando la rudimentale “strattiera” o “strattalora” che altro no era che una lamiera bucherellata fissata ad un telaietto. La passata ottenuta, veniva poi salata e lasciata essiccare lentamente al sole in dei “piatti minzani”, si produceva così la “conserva” un sapidissimo triplo concentrato di pomodoro che conservato nei tradizionali “capasieddhri” veniva diluito al momento dell’uso. Ma la salsa che non potrò mai dimenticare era quella che faceva Sasà, anziano marinaio di terra, nel senso che non si poteva considerare né un contadino, né tantomeno un pescatore. Pur avendo passato l’intera vita in mare, non credo avesse mai pescato un polpo o un pesce, avendo fatto tutta la vita solo il rematore, quasi esclusivamente sotto un suo zio di qualche anno più anziano, che era il suo capobarca. Precisamente, era un rematore alla valesana, ossia praticante la voga in piedi con i remi incrociati, utilizzata nel Salento per governare i tradizionali gozzi, lavoro pesante che gli aveva modificato visibilmente la postura. Per lui, arrivare a fare l’annuale provvista di salsa, era una sorta di conquista, che maturava con tanto lavoro, quasi una lotta contro una natura ingrata. Il suo lavoro iniziava l’estate precedente quando sceglieva un fazzoletto di terreno appartenente al demanio marittimo poco distante dal trullo circondato di ceppi di Primitivo e fichi d’India, dove, con la famiglia passava l’estate. Si trattava di pietraie, di qualche centinaio di metri quadri, spesso dei veri e propri banchi rocciosi con qualche piccola conca di terra, che se necessario smacchiava eliminando gli sterpi, dissodava, purgava dalle gramigne e lasciava che il terribile sole estivo curasse le zolle di terra rossa cuocendole e sgretolandole, consapevole del fatto che le piante di pomodoro amano la terra “cresta”, ossia selvaggia, mai coltivata. Nel mese di gennaio appena le uggiosità autunnali davano una tregua zappava nuovamente la terra curata che si sfarinava sotto la zappa come una semola. Aspettava che la luna di febbraio terminasse il suo ciclo e procedeva con grande anticipo, dove la profondità del terreno lo permetteva alla messa a dimora dei semi di pomodoro in postarelle che proteggeva dalla tramontana cingendole con una pala di fico d’India leggermente arcuata e dall’aerosol marino con un fitto mazzo di cisto. Il tutto orientato secondo un preciso schema, Sasà seguiva un protocollo di coltivazione antico e funzionale, infatti, quella pala di fico d’India oltre a proteggere le piantine inumidiva il terreno, grazie alla rugiada che nottetempo vi si depositava, per poi colare nel terreno al sopraggiungere dei primi raggi solari, una sorta di primordiale sistema di microirrigazione. Una volta spuntate le piantine, le accudiva amorevolmente, le diradava e rincalzava apportando cardarelle di terra che prelevava anche dagli incolti adiacenti. Quell’anticipo nella coltivazione, reso possibile dall’effetto mitigante del mare, era imposto dall’obbligo di fare arrivare a frutto le piante prima che l’implacabile solleone facesse evaporare anche l’ultima stilla di umidità uccidendole. Per cui, già verso la metà di giugno, Sasà si apprestava a fare la salsa, procedeva al lavaggio delle bottiglie, operazione che eseguiva in riva al mare, ponendo all’interno un po’ di sabbione e acqua marina e sbattendo energicamente il tutto, poi le poneva col collo all’ingiù in una cesta facendo sì che il sole le sterilizzasse. I grappoli di quei minuscoli pomodori a fiaschetto maturavano gradatamente, e appena ne racimolava una cassetta, svolgendo tutte le operazioni all’aperto, li lavava con l’acqua salmastra della “pozzella”, li cuoceva al fuoco di legna, li passava e riempiva con la densa passata ancora bollente le bottiglie, aiutandola ad attraversare l’imbuto con un bastoncino. Rabboccava in ognuna un filo d’olio d’oliva onde proteggere la salsa dall’ossidazione, le tappava con un turacciolo di sughero che ricopriva con un lembo di busta di cellofan che, retaggio della sua attività marinara serrava fermamente con due stretti mezzi colli di spago di canapa, infine, le ricopriva con una vecchia coperta e le lasciava raffreddare lentamente. Il giorno seguente assicurava la cassetta al portapacchi del Motom, e trasferiva il prezioso carico in paese, credo che riuscisse a produrre non più di una cinquantina di sudate bottiglie, a stagione, una provvista piccola, ma in qualche modo sufficiente al suo fabbisogno familiare, d’altronde la pasta asciutta era un pasto festivo che raramente compariva sulle tavole dei proletari più di una volta a settimana. Non ho mai assaggiato la salsa di Sasà, ma il ricordo del suo incredibile profumo, mi dice che una passata più buona deve essere ancora prodotta.

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