Alla scoperta del tempo perduto (Massimo Vaglio)

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Riceviamo e pubblichiamo volentieri un racconto-considerazione di Massimo Vaglio ambientato nella cittadina di Nardò.

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L’operosa cittadina agricola, la più grande e popolosa dopo il capoluogo, aveva le sue ludiche attrazioni, attrazioni perlopiù comuni, di quelle che danno sfogo a bisogni e piaceri più ancestrali. Si trattava di piaceri a pressoché esclusivo appannaggio degli uomini; infatti, oltre alla presenza di una ventina di attrattive operatrici del mestiere più antico del mondo, la maggior parte conosciute con coloriti soprannomi, vi insistevano una cinquantina di popolari attività di ristorazione, fra “cantine” anche dette “puteche ti mieru” e forni di macelleria. Il tutto era concentrato nell’antico suggestivo centro storico, con la piazza centrale che ne costituiva il fulcro e sulla quale si affacciavano gli usci di una decina di sodalizi dalle titolazioni più varie: Combattenti e Reduci, Circolo Agricoltori, Circolo Viticultori, Circolo Commercianti, Circolo Monarchico, più semplicemente noto come “La Monarchia”; Circolo Principe Umberto, e di cinque bar, uno dei quali, il Bar Parisi, era anche una pasticceria rinomata anche per la fornitura di rinfreschi nuziali, quasi accanto il piccolo bar biliardi di Gino Quaranta che era invece, se così sui può dire, il quartier generale della “migliore”, viziosa gioventù locale, una sorta festoso limbo, tappa propedeutica all’ammissione al dirimpettaio e più esclusivo Circolo Cittadino, popolarmente noto come circolo dei signori. La piazza era il luogo dove domanda e offerta di lavoro quotidianamente si incontravano, fungeva infatti di fatto da ufficio di collocamento e di sera era talmente affollata di uomini che nessuna donna dalla buona reputazione osava attraversarla. Anche per questa ragione, e per un concetto di privacy ante litteram, la maggior parte delle “cantine”, che come è facile immaginare erano ad esclusiva frequentazione maschile, erano concentrate in un paio di viuzze più appartate anche se centralissime. A parte alcune che limitavano la loro attività esclusivamente alla mescita di vino, tutte le altre preparavano tutta una serie di semplici stuzzichini che servivano come accompagnamento, immancabili le polpette di cavallo fritte o al sugo; i “pezzetti” di cavallo alla “pignata”; la trippa, la carne lessa; il pesce fritto o le sarde spinate indorate e fritte; il polpo fritto; le uova sode; panini con giardiniera sott’olio, sarde e ricotta forte e stagionalmente lampascioni “ccunzati” o fritti; peperoni cornetti fritti; melanzane o cavolfiore impastellati e altri ortaggi di stagione. Le più attrezzate, fra le quali la Cantina di Mingulone, erano fornite pure di griglia ove cuocevano principalmente “mboti”, tordi e “capuzze” di agnello e scendendo per la Via Lata c’è n’era una ove la signora Ornella, moglie dell’oste, ottima cuoca si sfiziava in cento “cucinizzi” diversi e sulla sua cucina economica perennemente in attività era un tripudio di pentolini con tantissimi assaggini diversi, pronti a soddisfare le voglie dei più esigenti “cannaruti”; oltre ai piatti classici, vi si poteva trovare di tutto dal baccalà con le patate, al coniglio, al fegato alla veneziana, alle rape ‘nfucate, alle chiocciole, al polpo alla “pignata”, alle verdure spontanee… Le “cantine” erano attività a dir poco spartane, con l’arredamento sovente costituito da suppellettili raccogliticce, seggiole, scanni e panche spesso riciclate; personalmente, mi è capitato di sedere a uno strano tavolo, per poi scoprire, che come denunciavano antiche macchie di tintura di iodio, era stato un tavolo operatorio che aveva svolto onorato servizio per molti anni nel vecchio nosocomio cittadino. A parte gli avventori saltuari e di passaggio, ogni cantina aveva i suoi clienti fissi riuniti in “squadre” ossia in gruppetti che vi si riunivano quotidianamente per giocare a “patrunu e sotta”, un gioco ove la posta in gioco erano delle consumazioni in vino, che poteva essere schietto oppure miscelato con gassosa o aranciata. Veniva praticato con le carte napoletane e chi raggiungeva il punteggio maggiore distribuiva le varie cariche ai partecipanti al gioco. Il numero delle cariche poteva variare e arrivava ad essere piuttosto ampio: “patrunu”, “sottapatrunu”, “mieticu”, “morte”, “morte ca more”, “femmina prena”, “villeggiatura”, “spingula”, “tacchi”… e come è possibile immaginare, si trattava di un gioco piuttosto complesso, anzi molto complesso, che esigeva molta concentrazione e grandi doti strategiche, pena il non bere mai, ma raramente durante il gioco scaturivano controversie o litigi, grazie all’ineludibile regola draconiana che stabilivano che fosse “gioco di parola”, ossia un gioco ove le parole una volta pronunciate non potevano essere ritrattate per nessun motivo, anche se si era trattato palesemente di un lapsus. Spesso, si incontravano due diverse squadre e ne scaturivano delle sorta di tornei dove ogni partecipante si dimostrava amico di tutti, salvo giocare solo per se e i suoi fedeli alleati. Il numero dei giri dipendeva dal numero dei giocatori, normalmente si faceva un giro per ogni giocatore e, per ogni giro, vi era in palio un numero di bicchieri di vino uguale a quello dei giocatori presenti, ciononostante, il più delle volte una delle squadre poteva non toccare un goccio di vino per l’intera serata e talvolta persino anche per intere stagioni, ma non continuare la sfida sarebbe stato oltremodo disonorevole. Altra caratteristica cittadina erano i forni di macelleria, ossia pertinenze di macellerie dove ogni sera si operava nella difficile arte di valorizzazione degli scarti e dei sottoprodotti della macellazione. Erano forniti di ampi forni alla pompeiana alimentati con fascine d’olivo, che già nel pomeriggio dal momento della loro accensione cominciavano ad emettere allettanti pesanti fumi, pregni com’erano del grasso scolato dalle cotture del giorno precedente. Con l’ausilio di spiedi e di graticole montate su slitte venivano arrostiti ‘mboti, animelle, frattaglie in genere e specialmente una saporita salsiccia plebea preparata con frattaglie, intestini e semola di grano duro, i cui rocchi venivano venduti a numero per essere consumati al momento o incartati in spessa carta gialla per l’asporto. Sulla stessa falsariga vi erano pure locali ove si procedeva esclusivamente alla cottura in calderone, in queste caldaie finivano generalmente frattaglie equine in massima parte intestini che estratti fumanti dalla caldaia venivano immediatamente porzionati sul bancone e somministrati agli avventori abbondantemente cosparsi di pepe nero; i mesi invernali e soprattutto il periodo di carnevale era quello di maggior attività e negli stessi locali si preparavano altre golosità quali la coppa di testa e i sanguinacci. Inutile dire che tanto le “cantine”, quanto i forni possedevano requisiti igienici a dir poco migliorabili, fra gli orrori che mi sono rimasti impressi, vi è quello di alcune cantine che procedevano al lavaggio dei bicchieri semplicemente rivoltandoli e scuotendoli in una bacinella colma d’acqua nella quale avevano aggiunto come disinfettante qualche fettina di limone, in un forno di macelleria invece, la salsiccia una volta cotta veniva posta in una grande vasca di plastica e mantenuta calda coperta con una vecchia giacca una e bisunta che aveva tutta l’aria di essere passata sulla salsiccia direttamente dalle spalle del suo proprietario. A due passi dalla piazza, discretamente semicelata dal monumentale portale si accedeva nell’antico Chiostro dei Carmelitani che ospitava il mercato coperto, a qualunque ora ci si affacciasse si veniva avvolti dalle stuzzicanti fragranze dei cibi, soprattutto nei mesi più freddi le macellerie esponevano appese sull’uscio filze di golose salsicce, le salsamenterie, ogni tipologia di salumi, formaggi e di pesce conservato, baccalà, acciughe, aringhe, baccalà e le grandi latte di profumatissimo tonno sott’olio, ma erano le arbanelle colme di fragaglia a possedere una forza attrattiva irresistibile, un mix di salumi, formaggi e sott’oli con cui noi ragazzini ci facevamo farcire dei robusti panini che consumavano seduti sui bordi della grande cisterna centrale dividendo lo spazio con i venditori di funghi spontanei. Nell’odierna desolazione che ritroviamo nel cuore della città, in quello che oggi abbiamo ribattezzato asetticamente centro storico e abbandonato, declassandolo a dormitorio e mensa per turisti senza storia, spesso superficiali e distratti pare incredibile pensarlo affollato, vitale, rumoroso, quella babele di voci, quel crogiolo di saperi, di arti, di manualità artigiane, dove sarti, macellai, fruttivendoli, musicisti, pizzicagnoli, manovali, contadini, barbieri, muratori, garzoni, studenti, fotografi, si incontravano condividevano spazi e esperienze, un luogo vero, vivo, incredibilmente affascinante!

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