Critica della ragione agroindustriale #8: una transizione oltre la tecnica (prima parte)

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(Critica della ragione agroindustriale #1, #2, #3, #4, #5, #6, #7)

Wolfgang Sachs, in un’intervista in cui gli è stato chiesto quale risorsa energetica ritenesse centrale per il futuro dell’umanità, ha risposto significativamente “l’intelligenza”, punto di vista del tutto condivisibile anche in agricoltura.

Agricoltura: da fine in se stesso a mezzo adeguato a un mondo che cambia

Come dovrebbe illuminarci l’intelligenza? Innanzitutto, facendoci comprendere che l’agricoltura non è un fine in se stesso bensì un mezzo per la prosperità umana, la quale a propria volta non può sussistere se la salute della biosfera non si mantiene su livelli quantomeno accettabili. Pertanto, la prima preoccupazione non deve consistere nell’escogitare mirabolanti tecniche per spremere più kWh o calorie, ma nel ripensare attività cruciali quali energia ed agricoltura all’interno di un piano complessivo per ridurre l’impatto della società umana sul pianeta: senza intervenire sulla natalità eccessiva nel sud del mondo e il consumo esorbitante di risorse in Occidente e paesi emergenti, non esiste alcuna forma di agricoltura possibile e immaginabile che possa salvare dal baratro.

In secondo luogo, l’intelligenza ci intima a non essere ipocriti. Sarebbe un totale controsenso dichiarare guerra al doping chiedendo al contempo agli atleti di migliorare prestazioni sportive ottenute con sostanze illecite; allo stesso modo, è del tutto irragionevole imporre obiettivi produttivi ambiziosi ostentando seri propositi di sostenibilità, per poi uscirsene con affermazioni del tipo “l’agricoltura biologica non può sfamare il pianeta”, delusi dal fatto di non poter conciliare botte piena e moglie ubriaca. Un atteggiamento genuinamente interessato al problema prima analizza le possibilità offerte dai metodi sostenibili, solo successivamente stabilisce mete da raggiungere; l’alternativa è rinviare ogni questione alle calende greche confidando in tecnologie futuribili (OGM seconda generazione, ecc), tirando a campare finché su può.1

Con buona pace della Cattaneo e dei 108 Nobel, abbiamo preso coscienza nei capitoli precedenti della palese insostenibilità dell’agricoltura intensiva, del fatto che venga sfruttata in gran parte per scopi inappropriati e di quanto risultino inadeguati gli OGM nell’invertire la rotta. Si tratta ora di mettere da parte i pregiudizi esaminando attentamente quanto l’alternativa all’agricoltura industriale possa offrirci, non prima di aver allargato adeguatamente lo sguardo.

Uscire dalla trappola iperproduttiva

Aver scoperto le implicazioni malthusiane del problema alimentare non significa ovviamente accantonare il vaso di Pandora scoperchiato dalla critica neomarxista. Scrive Baudrillard ne La società dei consumi, a proposito della crescita economica:

Noi non diremo più come chi ne è entusiasta: “La crescita produce abbondanza, dunque uguaglianza”, non assumeremo neppure il punto di vista estremo ed opposto: “La crescita è produttrice di disuguaglianza”. Rovesciando il falso problema: la crescita è fonte di uguaglianza o di disuguaglianza? Noi diremo che è la crescita stessa ad essere funzione della disuguaglianza. È la necessità per l’ordine sociale ‘inegualitario’, per la struttura sociale del privilegio, di conservarsi, che produce e riproduce la crescita come elemento strategico.2

La medesima logica perversa avviluppa tra le sue spire anche l’agricoltura: il mix esplosivo derivante dalla logica del profitto e dalle disuguaglianze (stratificazioni sociali nazionali e gerarchizzazione centro-periferia all’interno dell’economia globalizzata), costringe a produrre molto di più delle esigenze reali per contrastare la fame, situazione destinata a perdurare limitandosi a intervenire sulle pratiche agronomiche, senza modificare l’intero paradigma alimentare e i condizionamenti che riceve sul piano politico ed economico.

Del resto, si sta già ampiamente travasando vino vecchio in bottiglie nuove. Bio’ è diventata un’etichetta (al pari di ‘vegan’) che ha preso piede nella grande distribuzione, come testimoniato dalle linee dedicate realizzate da Carrefour, Wall Mart e altri grandi marchi; hanno puntato gli occhi sul mercato del biologico anche operatori esterni al comparto alimentare (vedi i 13 miliardi di dollari spesi da Amazon per acquistare la catena di supermercati bio Whole Food). Non è positivo che i consumatori possano accedere più facilmente che in passato a prodotti di miglior qualità? Certamente, tuttavia sono note le operazioni di greenwashing del business as usual per assimilare e depotenziare possibili minacce alle sue logiche (si pensi alla buffonata in cui è degenerato lo ‘sviluppo sostenibile’).

A causa dell’enorme importanza strategica, il comparto alimentare presenta quegli elementi monopolistici che secondo Braudel caratterizzano il reale spirito del capitalismo: il trading della commodity alimentari è concentrato nelle mani di quattro grandi multinazionali (ADM, Bunge, Cargill, Dreyfus, dette anche ABCD per le loro iniziali); l’industria di sementi e pesticidi si è distinta per fusioni multimiliardari che hanno dato vita a colossi dall’enorme potere lobbystico: nel 1999 Pioneer è stata assorbita da DuPont; nel 2000, dall’unione di Novartis Agribusiness e Zeneca Agrochemicals è nata Syngenta; nel 2001 Bayer ha rilevato per poco più di 7 miliardi di dollari Aventis Crop e nel 2018 ha fatto il colpo grosso (con il placet dell’antitrust statunitense ed europea) aggiudicandosi Monsanto, la quale a propria volta nel corso negli anni aveva fagocitato svariate aziende.3Invischiati in una filiera lunghissima – che nel caso di alcuni prodotti può arrivare a comprendere le seguenti fasi: produttore, raccoglitore, mediatore, grossista, confezionatore fino agli operatori della grande distribuzione organizzata, sempre più dominatrice incontrastata nel mercato del cibogli agricoltori si ritrovano fortemente penalizzati a tutto vantaggio degli intermediari, che possono operare ricarichi consistenti sul cibo (figure 44, 45).

 Figura 44. Fonte: Oxfam 2018

 

Figura 45

Pertanto, il nuovo paradigma deve ripartire dai contadini, troppo spesso declassati dall’agricoltura convenzionale a meri esecutori di direttive, prevedendone invece un coinvolgimento attivo, trasformando in cultura diffusa le visioni volte ad abolire la rigida divisione produttore/consumatore, come gruppi di acquisto solidale, cofarming, community supported agricolture. I movimenti per la sovranità alimentare del sud del mondo, capaci di convertire nel tempo l’istanza del diritto al cibo in una rivendicazione politica più elaborata, possono fungere da ottima ispirazione in Occidente per superare virtuosamente le pur ottime campagne per la difesa della salute e la protezione delle specificità locali, per elaborare una proposta più incisiva con lo scopo di ridisegnare profondamente la struttura del mercato.

I difensori dell’agroindustria ribatterebbero che tutti questi ragionamenti sono risibili rispetto al merito conclamato della Rivoluzione Verde, ossia aver abbattuto il prezzo del cibo in favore dei poveri; a tal proposito, c’è chi la butta in politica con slogan come “biologico di destra, OGM di sinistra”.4

A parte l’artificiosità dei bassi prezzi dovuta all’esternalizzazione degli oneri ambientali sulla fiscalità generale, esiste un altro motivo per dubitare di tale asserzione, apparentemente ineccepibile. La recente critica ecomarxista,5analizzando gli eventi a partire all’abolizione delle terre comuni in Inghilterra in favore delle recinzioni (‘enclousures’) fino alla rivoluzione Verde e all’avvento delle biotecnologie, ha scoperto un filo conduttore della logica capitalista in agricoltura: aumentare la produttività del lavoro, ridurre il più possibile il numero dei contadini ed espellere il surplus umano dalle campagne per fornire manodopera a buon mercato per l’industria e, successivamente, le attività del terziario; in questo contesto, il cibo a basso prezzo è servito da cavallo di Troia per contenere al ribasso la soglia della paga minima.

A titolo di esempio, i primi supermercati discount in Italia sono sorti negli anni Ottanta, con scarsissimo successo. La situazione si è modificata radicalmente nel 1992 con lo sbarco nel nostro paese della catena LIDL, a cui hanno fatto seguito altri marchi del settore6 e, soprattutto, l’introduzione nel 1997 del pacchetto Treu, ossia il varo del primo importante progetto di precarizzazione del lavoro, dopodiché la penetrazione nel mercato italiano ha raggiunto volumi di affari più consistenti. Insomma, prezzi degli alimenti più consoni per le esigenze dei produttori rappresentano con ogni probabilità una garanzia anche per i consumatori e quindi, se gli incrementi si mantengono entro limiti ragionevoli ragionevoli, non devono essere temuti.

1Una situazione analoga si verifica nel settore energetico, dove si spera nelle strabilianti potenzialità di soluzioni tecniche quali centrali a carbone con sequestro del carbonio, reattori atomici autofertilizzanti o fusione nucleare.

2Baudrillard 1976

3Colombo, Onorati 2009

5Patel, Moore 2017

6it.wikipedia.org/wiki/Discount. Se si paragona la quota discount italiana sul totale delle vendite alimentari rispetto a quella tedesca (10% contro punte superiori anche al 40%), essa può apparire esigua; tuttavia, bisogna pensare alla grande tradizione alimentare del nostro paese e all’importanza, anche a livello di prestigio sociale, assegnata al cibo dagli italiani, che ne fanno un caso quasi unico in Europa e nel mondo.

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